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Nel Sol Levante i giorni della resurrezione

Nel Sol Levante i giorni della resurrezioneUna scena da Matango di Ishiro Honda

Maboroshi Il panico e la preoccupazione che il COVID-19 genera in tutto il pianeta, sta avendo effetti collaterali anche nel mondo della cultura e dello spettacolo

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 6 marzo 2020

Il panico e la preoccupazione che il COVID-19 genera in tutto il pianeta, sta avendo effetti collaterali anche nel mondo della cultura e dello spettacolo. Cinema, concerti ed eventi pubblici sembrano essere le aree più colpite dalla paura, anche giustificata, di frequentare posti affollati o comunque con un’alta percentuale di persone presenti. Dall’altro lato, l’interesse per libri o film che trattano temi virali, in modo più o meno letterale, sta crescendo sempre di più: nel paese sembra essere ritornato nella classifica dei libri più letti La peste di Albert Camus, che naturalmente parla anche d’altro, mentre in Giappone è stato di recente ripubblicato Shuto kansen Pandemic, un romanzo del 2010 scritto da Tetsuo Takashima, dove un’influenza mortale proveniente dalla Cina arriva e sconvolge l’arcipelago. Sul versante cinematografico esistono alcuni film giapponesi che parlano di contagio, Pandemic del 2009 diretto da Takahisa Zeze, esplora ad esempio le conseguenze di un misterioso virus che causa un’influenza mortale e che si espande per la capitale. Molto più famoso nel Sol Levante è Fukkatsu no hi, Ultimo rifugio: Antartide, meglio noto anche con il titolo inglese di Virus, diretto da Kinji Fukasaku nel 1980. Si tratta di una vera e propria epopea del disastro, prodotta dalla Kadokawa, la casa di produzione che in quegli anni rivoluzionò il modo di fare il cinema commerciale nell’arcipelago.

LAVORO COMPLESSO, fu all’epoca il film più costoso mai realizzato in Giappone, Virus è una gigantesca produzione con un cast internazionale, Glenn Ford, Chuck Connors ed Henry Silva fra gli altri, ma anche i giapponesi Sonny Chiba e Masao Kusakari, ed è tratto da un romanzo di Sakyo Komatsu, il padre della fantascienza nipponica. Disaster movie che chiude il decennio più fruttuoso per questo genere di film e che ne rappresenta in qualche modo l’apice, Ultimo rifugio: Antartide parte da un esperimento biologico che finisce fuori controllo e dà il via ad un’influenza, chiamata ’Influenza italiana’ perché scoperta a Milano, che uccide la maggior parte della popolazione della terra. Ma il lungometraggio, come il libro, si spinge molto più in là, l’epidemia è solo una scusa per sondare le zone più buie di una società umana ridotta allo stremo e la stupidità ed incompetenza dei politici e dei governanti che ne consegue. La narrazione si sposta da una parte del globo all’altro, ma ha il suo fulcro nelle zone selvagge e naturali della terra, dal continente antartico, alle montagne del Perù, fino ai mari freddi solcati dall’unico sottomarino rimasto.

I 156 MINUTI della versione originale, ne esiste una più breve di poco meno di due ore ma qualitativamente molto inferiore, esplorano, come La cosa di John Carpenter o, sempre per restare in Giappone, Matango di Ishiro Honda, le relazioni di un piccolo gruppo di sopravvissuti costretti a un esistenza praticamente senza futuro. Una delle parti più pessimiste e cupe riguarda il ruolo delle donne, considerate, viste le condizioni estreme e quasi belliche in cui i superstiti si trovano, quasi come donne di piacere per accontentare gli uomini rimasti. La carica anarchica che lo contraddistingue e le condizioni di un’umanità allo sbando di cui Fukasaku deve aver fatto esperienza durante la Guerra del Pacifico, già presente nella serie di Lotta senza codice d’onore nei settanta, ma anche nel suo ultimo film, Battle Royale, trovano nel romanzo di Komatsu un perfetto terreno su cui svilupparsi e sfociare in un nichilismo quasi senza speranza. Non una visione edificante visti i tempi che corrono, ma un lungometraggio di buona fattura e di notevole impatto, anche considerando che si tratta, nei propositi, di un blockbuster.

matteo.boscarol@gmail.com

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