Visioni

Nel segno di Martin Luther King i sessant’anni di Jazzfest Berlin

John HollenbeckJohn Hollenbeck – foto di Mercedes Jelinek

Musica In cartellone live set e interventi di critici e studiosi

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 6 novembre 2024

«Il blues racconta la storia delle difficoltà della vita (…), e le mette in musica per venirne fuori con una nuova speranza e un senso di trionfo. È musica trionfante. Il jazz moderno ha continuato in questa tradizione, suonando le canzoni di una esistenza urbana più complessa. Quando la vita non offre ordine e significato, il musicista crea un ordine e un senso con i suoni che scorrono attraverso il suo strumento. Non c’è da meravigliarsi che così tanta della ricerca di identità fra i neroamericani sia stata rappresentata dai musicisti di jazz. (…) Molta della forza del nostro Freedom Movement negli Stati uniti proviene da questa musica». Nel gennaio ’64 Martin Luther King è sulla copertina di Time come «uomo dell’anno»; la lotta per i diritti civili, di cui King è una figura carismatica, è in un momento cruciale; in ottobre King riceve il Nobel per la pace; intanto dal 12 al 14 settembre è in visita a Berlino. Ma già a luglio ha ricevuto la richiesta di scrivere l’introduzione al programma di sala dagli organizzatori del primo festival del jazz di Berlino, che si svolge dal 24 al 27 di settembre.

Di rilievo il lavoro del batterista americano John Hollenbeck

NON PROPRIO tutti i festival di jazz possono dire di essere partiti con la benedizione di Martin Luther King, che probabilmente ha aiutato: quest’anno il festival del jazz di Berlino – 31 ottobre-3 novembre – ha festeggiato i suoi sessant’anni, vissuti prima sotto l’intestazione di Berliner Jazztage, e ormai da parecchi anni di Jazzfest Berlin, ma comunque con una invidiabile continuità.

Per l’occasione il festival ha reso omaggio a Martin Luther King, oltre che riproponendo nel catalogo celebrativo dell’anniversario il suo scritto, con The Drum Major Instinct, un lavoro creato dal batterista americano John Hollenbeck già qualche decennio fa, imperniato su un sermone pronunciato da King nel febbraio ’68, due mesi prima di essere assassinato: King parla dell’impulso fin da bambini a voler prevalere ed essere i primi, che si ritrova però anche fra le nazioni, e fa riferimento alla guerra in Vietnam («abbiamo commesso più crimini di guerra di qualunque altra nazione») e alle armi nucleari.

Il lavoro di Hollenbeck sottolinea e commenta il testo del discorso, e in questa riproposizione si articolava in tre set, il primo – particolarmente forte – con tre tromboni e batteria, il secondo con chitarra, fisarmonica, vibrafono e batteria, il terzo con tutti: set che sono stati intercalati da video di storiche esibizioni al festival, Miriam Makeba, Ornette Coleman, Irene Schweizer, Max Roach, Sarah Vaughan, Peter Brotzmann/Milford Graves.

Il cartellone di questa edizione era degno di questa storia, che è stata anche indagata e ripensata in uno spazio di interventi di critici e studiosi. Storia complessa, ma che nell’insieme è stata aperta al nuovo, e al nuovo – e alla presenza femminile su cui insiste Nadin Deventer, prima direttrice donna (dal 2018) – appare aperta in questi ultimi anni, offrendo l’esempio più unico che raro di un festival ufficiale di una grande capitale europea che sfugge al mainstream. Anche nomi di richiamo, ma ben scelti.

ALL’INIZIO del 2023 a Sons d’Hiver, a Parigi, Il pianista tedesco Joachim Kuhn aveva annunciato che smetteva di suonare: per fortuna non era vero, lo ha ridetto a Berlino, lo abbiamo visto – ottant’anni – in gran forma. Il trio Tapestry del sassofonista Joe Lovano fa bene a lui così come alla pianista Marilyn Crispell, e Carmen Castaldi, col suo drumming spoglio, è impagabile; la Crispell si è esibita anche in solo. La Sun Ra Arkestra, ahimè, è un mito ormai svuotato di senso. All’Hammond con il suo trio Decoy, con guest il grande Joe McPhee, Alexander Hawkins è una forza della natura. Di grande livello l’espressionismo della band della batterista di origine coreana Sun-Mi Hong. Bello il lavoro di Darius Jones, col suo sax alto che si staglia amaro su uno sfondo di archi.

Di carattere nella sua varietà il gruppo per tre quarti femminile (con Val Jeanty e Terry Lyne Carrington) della pianista Kris Davis. Fra dieci, venti, o altri sessant’anni, chi di questa edizione figurerà nei filmati celebrativi? Per esempio la Otomo Yoshihide Special Big Band, giovane, entusiasta, travolgente in chiusura del festival.

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