Nel romanzo di Fabio Bacà, la lingua distanzia il reale
«Benevolenza cosmica», da Adelphi Romanzo di esordio di Fabio Bacà, Benevolenza cosmica è un libro sul crescere, maturare, diventare genitore, accettare la mortalità propria e quella degli altri, venire a patti con il principio […]
«Benevolenza cosmica», da Adelphi Romanzo di esordio di Fabio Bacà, Benevolenza cosmica è un libro sul crescere, maturare, diventare genitore, accettare la mortalità propria e quella degli altri, venire a patti con il principio […]
Romanzo di esordio di Fabio Bacà, Benevolenza cosmica è un libro sul crescere, maturare, diventare genitore, accettare la mortalità propria e quella degli altri, venire a patti con il principio di realtà. L’elemento intorno al quale ruota il libro, ovvero la incredibile fortuna che da mesi perseguita il protagonista, è in realtà un espediente narrativo che funziona da metafora per una giovinezza in dissolvenza e, al tempo stesso, agisce da correlativo per un reale dominato dalla completa assenza di senso.
Ritroviamo messi a nudo, con un surplus di consapevolezza, tutti i tratti caratteristici di certa narrativa italiana americanizzata e di fattura postmodernista: l’inattendibilità del narratore, una strisciante ironia upper-class, la nullificazione di ogni progettualità di tipo politico (terrorismo incluso), la deformazione grottesca del terziario avanzato, lo svuotamento di senso degli istituti moderni (a partire naturalmente dal nucleo familiare), l’atomizzazione selvaggia e l’individualismo spinto, la bidimensionalità delle figure trattate, il presente eternizzato e la «fine della storia». Benché il romanzo abbia una notevole densità metaforica, ogni possibile spiegazione simbolica (scientifica, psicologica, religiosa o magica che sia), si ritrova sempre inceppata o azzerata, riportata alla banalità realistica dell’everyday life.
Il proposito del protagonista di mettere ordine nel reale attraverso la statistica (il proposito di ridurre la realtà a dati misurabili), cede infatti dinnanzi a un dio (il «dio della City di Londra» dove il romanzo è ambientato) che non è principio d’ordine e autorità, ma garanzia di disordine e irrilevanza. A dominare la vita dei personaggi c’è insomma il dio nichilista e anarchico della tecnica e del capitale. È il dio rizomatico della deregulation, che elargisce follia e monomanie agli uomini che gli si oppongono chiedendo significati, e un malessere senza nome ai suoi seguaci.
Ma dal suo tema dominante il romanzo riesce a scartare, affidando al linguaggio la critica dell’universo che ritrae e della letteratura che, complice, lo analizza, duplicandone la superficialità. Siamo sicuri, sembra dire tuttavia Bacà, che trasformare in un oggetto artistico il funzionamento del nostro presente tardo-capitalista possa ancora avere l’effetto di una analisi critica?
Su questa linea il romanzo si muove in una doppia direzione: da un lato si rifugia (prendendosi il rischio di apparire ridicolo) nel sentimentalismo, ricostruendo nuclei di significazione infranti – a partire dalla famiglia – e facendo coincidere questo passaggio con l’approdo del protagonista all’età adulta. Dall’altro, ed è l’elemento che più colpisce, fa sconfinare il suo linguaggio nella saggistica: Benevolenza cosmica non parla infatti la lingua che ci aspetteremmo da questo tipo di romanzo. Non troviamo la mimesi instupidita del parlato, le paratassi, la brevità, l’idioletto canonico della letteratura che ritrae l’insignificanza: fra il tema trattato e la lingua che lo racconta c’è un’incolmabile distanza, una distanza «dialettica», che apre una breccia e uno sguardo ulteriore. Il linguaggio è come il contro-volto intelligente della realtà istupidita, non smette di chiedere quel significato che questa non riesce a dare.
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