Nel processo vivente di una diaspora
Intervista Parla Angie Cruz, autrice di «Dominicana», il romanzo uscito con la casa editrice Solferino. «Ana, la mia protagonista quindicenne, viene portata da Santo Domingo a New York da un marito che le è stato imposto dalla famiglia. Racconto di immigrazione ma anche di abusi»
Intervista Parla Angie Cruz, autrice di «Dominicana», il romanzo uscito con la casa editrice Solferino. «Ana, la mia protagonista quindicenne, viene portata da Santo Domingo a New York da un marito che le è stato imposto dalla famiglia. Racconto di immigrazione ma anche di abusi»
Ana Canción ha quindici anni e vive nella campagna di Santo Domingo quando viene data in sposa a un uomo molto più vecchio di lei che la fa trasferire a New York. Non si tratta di scelte consensuali, né di amore. Il romanzo di Angie Cruz, Dominicana (Solferino, pp. 384, euro 18, traduzione di Lucia Fochi), indaga nelle pieghe indigeribili di una parabola che ha riguardato molte più donne di quante si possa immaginare e di cui riesce tuttavia a consegnare un ritratto indimenticabile di grande forza e desiderio di liberazione.
Per il suo libro si è ispirata alla storia di sua madre. Perché e come ha voluto raccontarla?
Mia madre è immigrata negli Stati Uniti negli anni ’70, data a un uomo del doppio della sua età dai suoi genitori che speravano che il matrimonio avrebbe assicurato i visti per tutta la famiglia. Quando ho posto domande per approfondire la mia comprensione di quell’esperienza, la storia ha però rivelato ogni tipo di incoerenza. Per me scrivere significa lavorare su ciò che mi infastidisce e mi genera perplessità. Un intreccio e una mappatura insieme ma anche un disfacimento che espone alle contraddizioni del risaputo. Scrivo ciò che non so, o quello che voglio conoscere meglio. Così tanti anni fa ho chiesto a mia madre se avesse rimpianti; mi ha risposto che avrebbe voluto avere la possibilità di ringraziare Caridad, l’amante di mio padre, per averle salvato la vita. Caridad era stata l’amante di mio padre per molti anni prima di sposare mia madre. Suo marito era in guerra. Il giorno dopo la mia nascita, quando mia madre tornò dall’ospedale ebbe un’emorragia al punto da perdere conoscenza. E Caridad «con la forza di un uomo» ha preso mamma con un braccio e me con l’altro riportandoci entrambe in clinica. È stata al fianco di mia madre per giorni, accudendo anche me finché mio padre non è riuscito a raggiungerci. Mi interessavano queste donne che, nonostante le circostanze poco ortodosse, si prendevano cura l’una dell’altra. Nel romanzo Caridad è una presenza minore ma penso ancora a questa vicenda tra lei e mia madre come a una storia dell’origine.
Nel suo lavoro che relazione c’è stata tra verità e finzione?
Più lavoravo al romanzo più capivo che la storia che volevo narrare non riguardava quello che era successo a mia madre o ciò che ricordiamo sia accaduto, ero più interessata al tipo di esperienze che mia madre non poteva immaginare. La scrittrice Dorothy Allison ha detto: «la finzione è la grande bugia che dice la verità». Penso sia vero. Ho intuito che se mi fossi allontanata da quella mia storia famigliare avrei potuto trovare un percorso per raccontare la verità sulla sua realtà e di altre donne. Rifletto anche su ciò che ho imparato da Toni Morrison, la storia può consegnarci un fatto ma la finzione «rivela la verità». Per me la possibilità narrativa ha creato l’urgenza di scavare più a fondo a ciò che ereditiamo, anche se la mia lealtà come scrittrice non è ai fatti ma ai personaggi, sono loro a condurmi alla verità.
Ambientato negli anni ’60, il suo romanzo si muove tra la campagna dominicana e New York. In che modo ha condotto le sue ricerche e quanto tempo ci ha dedicato?
Per anni ho visitato sia l’Archivio generale di Santo Domingo che il «Cuny» Dominican Studies Institute. Potrei passare ore interminabili a guardare vecchie foto e giornali in quelle stanze, perdermi in documenti e materiali non classificati. Il pungolo che mi spronava era ciò che non riuscivo a trovare. Cosa non veniva detto. Non sorprende che le storie delle donne della diaspora africana e indigena appartenenti alla classe operaia siano poco documentate negli archivi ufficiali, si trova più facilmente ciò che è riferibile a personalità in vista o al potere. Ho intervistato molte persone e guardato gli album fotografici di abitanti della comunità. È cresciuto anche così l’archivio visivo su Instagram @dominicanasnyc dove sto raccogliendo, ancora oggi, foto di donne dominicane a New York dagli anni ’50 agli anni ’80.
Nella vicenda di Ana riecheggia la violenza maschile contro le donne, un fenomeno sistemico e trasversale ai secoli.
È un argomento spesso evitato, tutti si concentrano sul tema della immigrazione e nessuno sugli abusi. Le sfide e le vulnerabilità che le donne devono affrontare sono invece centrali in Dominicana. Ana in questo è simile a molte donne, di tutte le classi e appartenenze. Ricevo messaggi di lettrici e lettori che riferiscono di come abbiano utilizzato il libro da ponte tra generazioni o all’interno delle famiglie per pronunciare cose che non sono state dette sulle violenze. Intorno ai sacrifici che le donne sono costrette a fare per il beneficio economico della famiglia. È una vecchia storia, pervasiva. Ne scrivo esplicitamente perché deve essere detta e resa visibile.
La sua protagonista sperimenta comunque la libertà, in assenza del marito. Accade nel perimetro della sua immaginazione o c’è dell’altro?
Attraverso la letteratura posso interpretare la possibilità della libertà e dei suoi confini. La libertà per me è essere in grado di esprimersi pienamente senza scusarsi. E quando Ana incontra Cesar non vive nella paura, accade qualcosa di più. Lo ripeto sempre anche se sappiamo quanto il patriarcato e il capitalismo persistano e sembrino essere investiti nella cancellazione o nella riduzione delle donne che scelgono di esprimersi pienamente. Quello a cui mi riferisco è vivere nell’erotico. La profonda consapevolezza che quando qualcosa fa stare bene, dal fare un pasto, al fare una passeggiata, all’amare una persona, capiamo l’eccellenza e non dovremmo mai accontentarci di nient’altro. L’ho imparato da una scrittrice che amo, Audre Lorde e il suo saggio fondamentale Uses of the Erotic (tradotto all’interno di Sorella Outsider, a cura di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida, edito da Il dito e la luna, ndr).
Quando Juan se ne va e ad Ana viene data aria per respirare, si sente bene, intuiamo come testimoni del suo viaggio che anche se cercherà di mantenere la promessa fatta a sua madre, anche se è programmata per essere rispettosa verso la sua famiglia, combatterà sempre per tornare in quel luogo, quella volta, dove – quando Juan se ne è andato – è stata finalmente libera di essere se stessa.
«Dominicana» è infatti anche il ritratto di un’adolescente che diventa adulta, certo ferita e sola eppure ostinata, alle prese con una maternità contraddittoria. Il desiderio per Ana è un atto di resistenza?
Per Ana innamorarsi o lasciare che qualcuno si innamori di lei è stato sì un atto di resistenza. Prima di concludere il romanzo non mi ero resa conto che non tutti hanno la capacità di innamorarsi. Traumi, brutte esperienze rendono impraticabile a molte persone l’affidamento al proprio cuore. Ho passato molti anni a scrivere questo libro e a un certo punto sono rimasta bloccata. Certo volevo raccontare una storia come quella di mia madre perché sono tante e sottorappresentate nelle opere letterarie pubblicate negli Stati Uniti, ma sono anche una scrittrice e mi interessa dedicarmi all’impossibile. È stata ancora una volta mia madre a sorprendermi quando le ho chiesto che cosa ha ritenuto impossibile per la sua vita, mi ha risposto che non si è mai innamorata. Ho capito subito che la mia protagonista Ana lo avrebbe fatto, si sarebbe innamorata. È come per la libertà: desiderare, mettere in atto il desiderio nell’amore, nel proprio lavoro e in ciò che si fa, è un atto di resistenza incredibilmente potente.
Oltre a scrivere romanzi, lei è la co-fondatrice ed editrice di Aster (ix), rivista transnazionale di arti letterarie femministe. Scrive in proposito: «Tracciamo linee tra futuro e passato, possibile e impossibile». Perché ha deciso di intraprendere questo progetto?
Sarebbe bello se vivessimo in un mondo in cui gli scrittori della diaspora africana e indigena potessero scrivere di ciò che vogliono, di scelte estetiche per esempio ed essere supportati in questo, ma non è il caso degli Stati Uniti. Viene chiesto loro esplicitamente di scrivere sulla propria identità politica, spesso si sente che l’investimento non è l’arte che stanno portando avanti piuttosto il modo in cui possono servire il giornalismo, il ciclo delle notizie. Quindi abbiamo pensato di creare uno spazio in cui queste scrittrici, emarginate nelle lettere americane, abbiano uno spazio libero per esprimere se stesse. Il logo «Aster(ix)» è un simbolo selvaggio, una stella. Un gioco con un asterisco che parla di omissioni.
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