Nell’autunno del 1926 Thornton Wilder era a Napoli quando annotava: «Il mio nuovo libro ribolle in me come il Vesuvio». C’è da chiedersi se l’aria di catastrofismo pompeiano aleggiante sul panorama del Golfo non abbia contribuito a rifinire il senso di fatalità pendente su una storia del lontanissimo Perù coloniale che Wilder andava allora elaborando. Apparso l’anno successivo, Il ponte di San Luis Rey (traduzione di Maurizio Bartocci, Postfazione di Tappan Wilder, Elliot, pp. 151, e 16,00) fu subito tradotto in Italia dall’amico Lauro de Bosis (Edizioni Modernissima, 1929), per entrare in seguito nel giro più grande degli esordienti Oscar Mondadori. Nonostante le perplessità dell’editore americano, con il Ponte l’affermazione di Wilder nel panorama letterario fu assicurata. Inaspettatamente, il romanzo raggiunse l’invidiabile bilancio di 223.170 copie vendute nel primo anno e il riconoscimento di un Pulitzer.
Wilder era reduce dal piccolo successo della bizzarra Cabala romana, frutto del suo periodo di studio da archeologo presso l’Accademia Americana sul Gianicolo. Conosceva la complessa Italia di quegli anni e nel 1926 tornava in Europa per ritemprarsi nella classicità prima di intraprendere una carriera di insegnamento a Princeton. Il Perù lumeggiava nella geografia della sua mente ma non nel suo immediato carnet di viaggio: il viaggio nel tempo (come quello che può offrire l’archeologia) è molto più difficile, egli sosteneva, del viaggio nello spazio («Paris Review», 1956), una difficoltà che avrebbe superato ancora meglio nel 1948 con Le Idi di Marzo.
L’idea del «ponte», su cui il Vesuvio sembrava gettare una spruzzatina di fuoco, era maturata dalla lettura di Le Carrosse du Saint-Sacrement, una pièce di Prosper Mérimée sugli amori dell’attrice/sciantosa Micaela Villedas (1748-1819), detta «la perra chola» (la cagna bastarda), e Manuel Amat y Juniet, Vicerè del Perù (1761-’76). Altre fonti storiche avevano fornito a Wilder materiali contestuali. Al ponte di liane degli antichi Inca sul fiume Apurímac lungo la «strada reale» da Lima a Cuzco, egli dà il nome di una missione fondata dal francescano Junípero Serra (1713-’84), da lui trasformato nell’italiano Fra’ Ginepro, colui che ricostruisce la vita dei cinque pellegrini periti nel crollo del ponte a mezzogiorno del fatidico venerdì 20 luglio 1714. Qualche anno dopo Fra’ Ginepro finirà sul rogo dell’Inquisizione, allestito nella funesta piazza di Lima (già Melville ne aveva fatto orrido scenario), a causa del libro da lui ricavato dalla vicenda: un memoriale di testimonianze, anch’esso consegnato alle fiamme, del quale – dice il narratore – sopravvive una copia clandestina nella biblioteca dell’Università di San Marco a Lima.
Sopravvivono alla disgrazia anche le lettere scritte dalla Marquesa de Montemayor alla figlia Clara, allora in Spagna presso la corte del primo Borbone Filippo V. A questa Madame de Sévigné del Nuovo Mondo si affida il compito di fornire informazioni sui costumi del Perù coloniale: l’architettura di Lima, la cattedrale, i famosi balconi di legno, e quindi gli orfanotrofi e i conventi, la vita economica e la cultura provinciale del teatro, il folclore e le ibride superstizioni, i pellegrinaggi e il culto dei santuari, i trasporti e i panorami delle Ande. L’epistolario, indicato dal narratore come primo esempio di letteratura peruviana, sarebbe un derivato delle ricerche compiute dallo ‘storico’ Wilder, il quale qui affina i suoi strumenti prima di altri «viaggi nel tempo»: le incursioni nella romanità di Giulio Cesare o nell’ellenismo dell’Andria di Menandro/Terenzio//Machiavelli. Con la Périchole, zio Pino e i meccanismi sociali dell’allora cittadina di Lima, egli prepara invece la tavolozza che lo porterà a un magistero teatrale coronato dalla Piccola città americana.
Non chiarita resta, tuttavia, la collocazione della storia del Ponte nel 1714, anno in cui i personaggi storici coinvolti erano appena venuti al mondo o non erano ancora nati. C’è da supporre che Wilder si faccia portavoce di uno stagionato atteggiamento anglosassone – già circolante nel Benito Cereno di Melville e, poi, nella Morte viene per l’Arcivescovo dell’amica Willa Cather – di denuncia della decadenza nel Nuovo Mondo della colonizzazione spagnola (e francese) di marchio cattolico e, di conseguenza, dell’affermazione della superiorità ‘progressista’ e protestante dell’Impero britannico (e, in proiezione, di quello statunitense). Sarà utile ricordare che nel 1714, con la pace di Utrecht, si conclude la Guerra di Successione Spagnola, che sanzionò il definitivo dominio dell’Inghilterra sui mari e sui territori nordamericani, nonché sul monopolio del commercio degli schiavi.
In verità, Wilder mostra di voler gestire problemi di natura più ontologica (ne aveva discusso con il padre, ferreo puritano anti-cattolico) che la curiosità inquisitiva del suo Fra’ Ginepro gli dà occasione di esplorare: «Perché mai è capitato proprio a quei cinque?». C’è un disegno nell’universo e nella vita degli uomini? E chi lo governa? Il crollo del ponte quale «Atto di Dio» avrebbe potuto mostrare «le Sue intenzioni allo stato puro»: a chi tocca la disgrazia? Ai reprobi? «Perché Dio scelse proprio quelle persone e quel giorno per dare prova della sua saggezza»?
Domande che sanno di scetticismo, se non fossero formulate da un Fra’ Ginepro alle prese con i suoi «convertiti», gli Indios, sempre in cerca di prove «solide» dei mezzi salvifici del Dio cattolico a giustificazione delle sofferenze inflitte. Wilder seguirà la pista aperta dal suo frate, senza pervenire – come d’altro canto il frate – a risposte sulla «molla nella molla» che azionava le cinque vittime: «Alcuni dicono che non lo sapremo mai – ammette il narratore che dichiara di «saperla più lunga» –, che per gli dei siamo come le mosche uccise dai bambini nei giorni d’estate; altri, invece, dicono che nemmeno i passeri perdono una piuma se non è il dito di Dio a farla cadere» (gli dèi saranno quelli della Cabala; sul passero riecheggiano parole dai Salmi e dall’Amleto). È una prima tappa verso la rivalutazione del cattolicesimo bistrattato nella Cabala.
La domanda teologica (fatalità o oscuro disegno divino) scaturisce dal racconto delle vite delle vittime; l’eccentrica e grafomane Marquesa, l’orfana Pepita, Esteban, uno di due sfortunati gemelli, Zio Pio, il Pigmalione dell’attrice Périchola, e Juan, il figlio di lei. Tuttavia, non c’è da dubitare che il loro arrivo sul ponte, quel giorno e a quell’ora, sia solo conseguenza di coincidenze che non lasciano intravedere alcuna recondita interrelazione capace di spiegare la scelta divina riservata proprio a quei cinque per la caduta nel baratro. Il mistero di quella scelta sembrerebbe ricadere sui loro parenti, tutti colpevoli di una qualche manchevolezza. Lo suggerisce il messaggio finale della Badessa sull’incapacità umana di amare; l’amore, se ritrovato dopo la disgrazia, può costituire la chiave del mistero: «l’amore sarà bastato – ella dice – e tutti gli impulsi dell’amore ritornano all’amore da cui sono venuti. Nemmeno i ricordi sono necessari all’amore. C’è una terra dei vivi e una terra dei morti, e il ponte è l’amore, la sola sopravvivenza, il solo significato».
Quanto al ponte reale sulla strada di Cuzco, esso è ancora lì, rimodernato in muratura. Peccato che, col tempo, l’ormai proverbiale e funesta inaffidabilità attribuitagli abbia finito col sostituire il significato più profondo del romanzo che lo ha reso famoso.