Nel mondo di David Lynch
Libri «Io vedo me stesso» propone una serie di conversazioni raccolte da Chris Rodley, da dove cogliere la dialettica e la poetica dell'artista
Libri «Io vedo me stesso» propone una serie di conversazioni raccolte da Chris Rodley, da dove cogliere la dialettica e la poetica dell'artista
Se è vero che il cinema sta progressivamente perdendo nell’immaginario delle nuove generazioni il ruolo che ha avuto per un secolo e oltre, il novecento delle avanguardie e delle utopie, è altrettanto vero che pochi registi possono vantare oggi una «presenza» come David Lynch. Un risultato per alcuni versi misterioso visto il carattere appartato, fuori dalle grancasse dei festival e soprattutto fuori dal ritmo compulsivo che la società dello spettacolo oggi impone in egual misura a mestieranti e a artisti, veri o presunti tali.
Per una qualche ragione credo che qualcosa c’entri quel garage in cui all’inizio degli anni settanta il giovane Lynch si rinchiude per lavorare compulsivamente, notte e giorno, al suo primo e probabilmente più estremo dei lavori, in ogni caso quello in cui è contenuto già gran parte del proprio cinema: Eraserhead (1976). In un luogo simile, più o meno proprio in quegli anni, si rinchiude un’altra icona di questi tempi, un altro uomo proveniente dal passato ma destinato tra i pochissimi a passare lo strettissimo setaccio delle generazioni del nuovo millennio, ovvero Steve Jobs.
Due creatori di mondi giganteschi, in cui l’immaginazione umana si perde come dentro un labirinto. Entrambi, e questo particolare li rende ancora più simili, maniacalmente legati al dettaglio, al particolare.
In Italia è appena uscito quello che probabilmente sarà il libro definitivo su David Lynch, Io vedo me stesso (Il saggiatore, pp. 424, 25 euro), una raccolta di conversazioni raccolte da quel Chris Rodley che una ventina di anni fa ci aveva dato un volume altrettanto importante (e purtroppo da tempo introvabile da noi) dedicato a David Cronenberg. Quanto la poetica di Lynch e sia legata a questa dialettica tra lo smisuratamente grande dell’immaginazione e l’irriducibilmente piccolo del dato di realtà, lo dicono due passi contenuti nel capitolo dedicato proprio ad Eraserhead. Nel primo, Lynch risponde alla domanda su qual’ è l’idea che voleva portare sullo schermo in un film la cui gestazione è stata così lunga. Il regista, nato a Missoula nel Montana il 20 gennaio 1946, risponde di essersi basato su un mondo, quello di Philadelphia, dove «la gente si dibatte nell’oscurità». Inizia qui a farso largo quello sganciamento di persone e oggetti dalla datità per riapparire, in qualche modo alterati nella loro funzione o nella loro ragion d’essere, in luoghi apparentemente ordinari ma in realtà appartenenti a un altrove, indefinito, anzi per meglio dire, remoto. Questo aggettivo non connota più un dato fisico e spaziale, ma una condizione mentale. Come tutti i grandi creatori, il merito di Lynch è quello di aver ampliato l’utilizzo di una parola prima piegata ad un solo e unico significato.
«Mi capitava di stare sul set di notte, – dice Lynch- e di immaginare l’intero universo che lo circondava. Immaginavo di camminare, incontrando pochissime macchine e pochissima gente. Le luci alle finestre sarebbero state fievoli, e all’interno non si sarebbe scorto alcun movimento; il caffè sarebbe stato deserto, tranne che per una sola persona che non parlava in maniera corretta. Non era altro che un’atmosfera. Vivere in un mondo come quello… non esisteva niente di simile».
Il cinema come pura esperienza sensoriale, rispetto al quale ogni verbalizzazione risulta superflua e fuorviante, dove i suoni acùsmatici, come li ha definiti anni fa uno dei grandi studiosi dell’opera di Lynch, Michel Chìon, sono uno dei cardini. Messaggi da un altro mondo, troppo piccoli o troppo grandi (ancora una volta la dialettica tra due smisuratezze) si scontrano con l’umano che risulta una creatura paradossale, insufficiente al compito di comprendere questa dialettica.
Da qui la popolazione di creature bizzarre, nani, deformi, schizoidi, repressi, alterati, portavoce di una sensibilità, meglio, di una verità che gli «umani», ridotti a creature superficiali ed effimere, non riescono minimamente a cogliere. Il creaturale «ci» guarda e ci «riguarda». All’interno di questo discorso si inserisce anche il debito di Lynch nei confronti di Kafka. Un riferimento manifestato più volte dal regista, un esempio su tutti tra cui la bellissima sequenza iniziale con la macchina da presa che lentamente sprofonda nell’idillio della provincia americana, tra furgoncini rossi, scolari che attraversano le strisce, tv su cui gira il giallo del primo pomeriggio e un uomo strozzato dal tubo per irrigare quel praticello sotto al quale si affannano gli scarafaggi.
Per capire appieno questo grande artista bisogna collocarlo nel secolo delle avanguardie, del tentativo di andare oltre la parola come strumento di comunicazione borghese e razionalizzante e costruire delle esperienze di comportamento «altre», dei gesti artistici attraverso i quali progettare uno sguardo diverso sulla società degli uomini. Magari anche criticandola.
D’altronde questa riluttanza nei confronti del logos, della spiegazione razionalizzante offerta dalla parola, attinge anche alla sua precocissima passione per la pittura, della quale sono state testimonianza nel corso di questi anni le mostre e i cataloghi ma soprattutto il suo cinema. Perché per Lynch la settima arte altro non è che un luogo astratto in cui far confluire tutte le singole discipline, il luogo di una riunione avvenuto per caso, nel pieno della Belle epoque.
E dalla pittura al cinema una delle sue ossessioni più interessanti è sempre stata quella che ruota attorno alla casa. Prediligendo gli spazi angusti, da espandere oltremisura scavalcando ogni tipo di parete (soprattutto la quarta dei naturalisti di fine ottocento) Lynch fa lievitare i suoi incubi.
«La casa – spiega a Rodley- è un posto in cui le cose possono anche andare per il verso sbagliato. Da piccolo, le case mi sembravano claustrofobiche, ma non perché avessi una cattiva famiglia. Una casa è come un nido, va bene solo per un certo periodo. Utilizzo i cerotti nei miei quadri perché mi piacciono i loro colori e mi piace il modo in cui sono connessi alle piaghe. Il cotone esercita su di me un’attrazione simile una sorta di sensazione medicale».
Ed è da lì, in fondo che tutta la sua immaginazione parte e arriva.
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