Più che nero o bianco, Niger et albus dice l’intestazione del festival veneziano, tante diverse tonalità di grigio. Sono così definitivi, il bianco e il nero. Il nero ha bisogno del rosso accanto a sé per accendersi di un po’ di anarchia. Il bianco aspira al vuoto e al silenzio, attento a non contaminarsi. I grigi sono fragili e insicuri. Portano la traccia di una incertezza capace di interrogare il senso, o forse il nonsenso, di quello che ci sta davanti. Ciò che ci ostiniamo a chiamare teatro. Dove collocarlo ad esempio in una ideale scala cromatica questo enigmatico Truth’s a dog must to kennel, scritto e interpretato da Tim Crouch, sessantenne attore e drammaturgo inglese in fama di sovvertitore delle convenzioni teatrali del pregiato teatro britannico.

ENIGMATICO a cominciare dal titolo, in realtà è un verso di Re Lear. Il dialogo filosofico del quarto atto fra il sovrano che ha ceduto il regno alle figlie e il sentenzioso Fool che sfida la sua ira. La verità è un cane da chiudere in canile; va scacciata a frustate, traduce Giorgio Melchiori. Da solo in una sala priva di qualsiasi cenno di teatralità, Crouch si presenta indossando sul volto un visore, quasi fosse un nuovo genere di maschera. La realtà virtuale che ha davanti, che descrive agli spettatori che gli stanno di fronte con sprazzi di comicità, è quella di un grande teatro dove si recita Shakespeare, che altro se no. Re Lear appunto, dove a lui tocca la parte del Fool. Ma è come se la guardasse da fuori, quella sua parte, fino a rifiutarla. Ogni tanto l’attore si leva il visore e afferra un microfono. Ma il cambio decisivo è lo slittamento dai toni giocosi della stand-up comedy a un progressivo e sempre più allucinato avventurarsi dentro un mondo uscito dai cardini. L’atto di guardare influenza la cosa guardata, ci ha insegnato da tempo la fisica novecentesca. Forse vale anche per la realtà virtuale.
Viene dall’Australia invece l’ensemble del Back to Back Theatre, per la prima volta nel nostro paese però con uno spettacolo di 16 anni fa e qualche curiosità resta su una possibile evoluzione avvenuta nel frattempo del loro teatro, premiato dalla Biennale con il Leone d’oro. Fanno teatro sociale, da quasi quarant’anni. A metà strada fra arte e terapia, come spesso avviene per queste esperienze. Cioè intrecciando il lavoro sulla disabilità con la volontà di portarlo a livello di una riconosciuta professionalità. Qui sono in scena cinque attori sotto la guida di Bruce Gladwin, regista e direttore artistico della compagnia. Il loro Food court è una parabola di umiliazioni esercitate su una donna indifesa. In un crescendo di violenza che si sviluppa però con la lentezza di un rituale, amplificata dalle musiche jazzistiche del trio The Necks.

NON HA BISOGNO di presentarsi Milo Rau, star internazionale di un «teatro della realtà» spinto sovente al limite di quanto è emotivamente sopportabile. Lavori dedicati a drammi sanguinosi, come le ragazzine sequestrate e seviziate o l’omicidio di un omosessuale a Liegi, il misterioso suicidio collettivo di una intera famiglia o i delitti dell’Isis a Mosul. Il re-enactment, la rielaborazione drammatica di eventi reali che costituisce la base del lavoro del regista svizzero tocca questa volta la vicenda terribile di una madre assassina dei propri cinque figli per metterla a confronto con il mito tragico di Medea. Medea’s children, si intitola. A raccontare in scena uno spettacolo che fingono già avvenuto sono sei ragazzini. Di entrambi i sessi. Rispondono all’attore che li guida, recitano e cantano i brani che preferiscono. Secondo una struttura drammaturgica che Milo Rau ha codificato, su un grande schermo si alternano le immagini degli attori girate durante la preparazione dello spettacolo con quelle dei ragazzini riprese sul palco a doppiare in «real time» l’azione, proiettata in un mondo gelido e barbarico.
Si può mostrare tutto? Si chiedono durante lo spettacolo. Milo Rau ritiene di sì e molti sono d’accordo con lui. La ragazza più grande che fa la parte della madre è andata al supermercato a comprare un coltello. Così alla fine dà il via alla lunga sequenza in blow-up delle uccisioni. Al secondo bambino soffocato e poi sgozzato col coltello, i pochi che non tollerano la durata di questo sguardo possono solo uscire dal teatro.