Nel mio caos immaginario
Caparezza – ufficio stampa
Alias

Nel mio caos immaginario

Incontri Il nuovo tour di Caparezza, al via il 25 giugno, come sintesi delle arti. «L’impegno di un musicista è dare un senso a ciò che fa. Se affronti questo mestiere solo per la fama, è uno sbaglio»
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 11 giugno 2022

La prima cosa a saltare all’occhio è il fatto che per tutta la durata dell’intervista Michele Salvemini in arte Caparezza non stia seduto un attimo, quasi a voler puntellare il linguaggio verbale con quello del corpo. La seconda è quella specie di pala d’altare laica alle sue spalle, una trinità musicale composta dalle immagini di Kraftwerk, The Who e Frank Zappa. Segni prossemici e iconografici che si inseriscono in una conversazione a cui dà l’abbrivio il nuovo tour in partenza il 25 giugno, Exuvia Estate 2022, dal titolo dell’album pubblicato nel maggio dello scorso anno.

«Exuvia» come la pelle che l’insetto lascia dietro di sé dopo la muta. La trasformazione personale raccontata nell’album non può prescindere da quella collettiva che stiamo attraversando. Quale exuvia ci stiamo lasciando alle spalle?

La società cambia a una velocità vertiginosa, anche in virtù dell’evoluzione tecnologica. Io sono nato nel 1973, e ho conosciuto questo sviluppo — il computer, internet — soltanto dopo l’adolescenza. Quindi vivo un po’ scollegato… E ne sono orgoglioso! Non riesco a decifrare certe cose intorno a me, guardo le classifiche di Spotify, come si chiamano, New Music Friday, e non so di chi parlino. A quarantotto anni penso sia anche normale… Sono arrivato a quell’età in cui non capisci più niente! Anche quando mi attribuivano capacità divinatorie perché scrivevo di cose che poi si avveravano nella realtà, rispondevo sempre che in fondo è facile prevedere il futuro: basta prendere il presente e peggiorarlo!

Poteri divinatori che ti avranno certamente affibbiato anche per brani quali «Come Pripyat», per il semplice fatto di averlo intitolato a una città ucraina ben prima del conflitto…

Un’altra coincidenza, non c’è alcun prodigio, e non voglio che il brano venga caricato di un nuovo significato. Quella canzone è il cuore di Exuvia, rappresenta il mio spaesamento personale. Pripyat l’ho presa come esempio perché è la città fantasma per eccellenza, è stata inghiottita dalla natura, ma non c’è alcun richiamo all’attualità.

Tra l’altro il suo senso collettivo è molto più vicino alla realtà del nostro paese, con quei versi sulla strage di Capaci e sul «modello Genny Savastano».

Su questo vorrei fare una riflessione. Per me la strage di Capaci è profondamente viva nella memoria, ma ci sono ragazzi di ventotto anni che non l’hanno vissuta. Non bisogna aspettare le ricorrenze dei dieci, venti, trent’anni… Lo dico davvero a livello culturale: è una cosa che dovremmo fare quotidianamente, per capire che non è così positiva questa fascinazione per l’anti-Stato.

Restando all’ultimo album, colpisce il brano «La certa», in cui raffiguri la morte come una motivatrice.

Non penso così ossessivamente alla morte, ma più passa il tempo più capita di perdere persone care. Così ho tirato delle conclusioni, che non sono solo mie… Saramago ci ha scritto un libro su questa cosa. La vita è come una canzone: ha un tempo finito, nel quale diamo il meglio di noi, se non fosse così vivremmo nell’apatia. Ci tenevo a raccontare l’importanza della morte come molla per tutto quello che facciamo.

Parliamo del prossimo tour. Siamo ormai alla terza ripartenza, dopo quelle abbozzate nei due anni precedenti. È cambiato qualcosa, in questo periodo, nella gestione del tuo spettacolo e nella sua stessa ricezione?

Non è cambiato molto, lo gestisco sempre nello stesso modo, rendendolo via via più complesso. Sul palco c’è una sintesi delle varie arti: il concerto con la band, ovviamente, ma anche teatro, danza… Quest’anno abbiamo quattro performer, dei quali cercherò di sfruttare le capacità attoriali… Credo di aver creato uno show abbastanza originale, perché è nato sui palchi, si è evoluto in tanti anni, raddrizzando il tiro fino ad arrivare a qualcosa di molto personale. Chi ha seguito i miei live precedenti sa benissimo cosa aspettarsi; per chi non è mai venuto, potrei dire che è un’esperienza, con una sua narrazione propria dal primo all’ultimo pezzo.

Uno spettacolo anche da guardare, insomma. In precedenza avevi coniato il termine fonoromanzo (per «Le dimensioni del mio caos») e definito «cinematografico» lo stesso «Exuvia», ispirato dal Viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, celebre inedito di Fellini. Ti orienti consciamente verso questa sinestesia già durante la produzione in studio?

In realtà la mia vita artistica si svolge in due compartimenti stagni, lo studio e il palco. In studio mi concentro sul disco e non penso minimamente alla resa dal vivo, cerco anzi di fare cose che non hanno niente a che vedere col live, tant’è vero che sul palco mi avvalgo anche di sequenze per tutto ciò che non può essere suonato dal vivo. Quello è il momento della creazione… Poi arriva la ricreazione , la reinterpretazione di quanto fatto in studio, ma sono due fasi che obbediscono a leggi completamente diverse. Ma hai ragione quando dici che c’è molta immaginazione e non ci si ferma soltanto alla musica, perché io fondamentalmente sono uno che suona, ma non un «musicista» nel senso classico… ho ascoltato e studiato i generi più disparati mosso dalla passione, mescolando tutto fino a creare le colonne sonore dei film che mi facevo in testa. Ogni canzone ha sempre avuto un immaginario a cui obbedire, e questo ne rende più facile la migrazione sul palco.

Tra l’altro l’iconografia che hai alle spalle [indico i poster di Kraftwerk, Who e Zappa] parla proprio di un periodo in cui studio e palco erano attività completamente diverse, anche per questioni tecnologiche.

Ci sono band che nascono con un’attitudine live, ed è il loro pregio, artisti che vanno in studio perché hanno bisogno di un palco, e quindi creano qualcosa per poi suonarla. Nel mio caso non è così. Dei personaggi alle mie spalle quelli a cui mi sento più vicino, anche se estremamente distanti da me musicalmente, sono i Kraftwerk. La prima volta che li vidi, a sei anni, mi sembrarono degli alieni, mi trascinarono in un mondo di fantasia, come anche i Rockets. Mi piace pensare all’arte come alla creazione di una realtà alternativa. Quando lavoro a un disco, la mia esigenza è creare qualcosa che non c’è, perché quello che c’è può essere anche bello ma non mi basta. La mia attitudine è radicata nel mondo della fantasia più che in quello della realtà.

A proposito di opposizioni, in «Prisoner 709» contrapponevi parole rispettivamente di sette e nove lettere. Vorrei proporti un’altra antitesi: impegno o rimozione?

Forse rimozione dell’impegno! Non penso che una canzone abbia come unico scopo quello di essere impegnata in senso sociale e politico. Negli anni Settanta c’erano canzoni impegnate ma per me noiosissime… Avrei preferito ascoltare qualcosa più leggero ma con un arrangiamento migliore!

In realtà mi riferivo a un impegno soprattutto artistico, nel senso di studio, ricerca, rispetto per la propria arte.

Allora il discorso è diverso. L’impegno dell’artista è dare un senso a quello che fa, alimentare quel fuoco che ha dentro. Se questo «mestiere» lo fai solo per essere notato, o per migliorare la tua condizione economica, il che non è detto che accada, secondo me lo fai nella maniera sbagliata. Credo che sia necessario, appunto, l’impegno verso la propria passione.

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