Italia

Nel Mediterraneo la morte dell’Europa

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Immigrazione Un'altra ecatombe nel canale di Sicilia. Almeno 330 migranti sono morti inghiottiti dal mare dopo essersi imbarcati su quattro gommoni partiti dalla Libia. Sono stati minacciati con le armi e obbligati a sfidare un mare con onde alte fino a otto metri. Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, per l'ennesima volta lancia un appello disperato: "Non voglio più raccogliere morti, la nostra battaglia è quella di questi disperati, non so più a chi rivolgermi, so che il Papa ha già parlato ma forse farebbe bene a far sentire ancora la sua voce"

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 12 febbraio 2015

Ancora centinaia di cadaveri. Un altro omicidio di massa che verrà derubricato con un’alzata di spalle. La fossa comune che un giorno farà vergognare l’Europa e l’Italia è sempre il mare Mediterraneo. Diceva un tale con uno spiccato senso per la tragedia che se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro avrebbe affondato la sua barca. Domenica, nel canale di Sicilia, perso tra onde enormi, non c’era solo quel gommone avvistato dalla Guardia costiera con a bordo 105 persone. Ce n’erano altri tre.

 

Due sono stati soccorsi da altre imbarcazioni proprio mentre sulla motovedetta 29 migranti stavano morendo di freddo: sul primo c’erano solo due persone, sul secondo sette. Ne mancavano almeno duecento: le imbarcazioni che salpano dalla Libia vengono sempre caricate a forza condannando a morte quasi sicura i migranti che tentano la fortuna anche con un mare impossibile. Un terzo è sparito nel nulla. A dare le giuste proporzioni di una tragedia che è inutile definire annunciata sono stati altri nove sopravvissuti che ieri all’alba sono sbarcati sulle coste siciliane. Hanno raccontato di un quarto gommone inghiottito dal mare. La conta finale dei cadaveri lascia senza parole. Sono trecentotrenta. Come a Lampedusa il 3 ottobre 2013, ma questa volta con meno lacrime. Quel giorno il ministro Alfano sentì almeno il bisogno di declamare: “A Lampedusa – disse – ho visto 103 corpi, ho visto una scena raccapricciante. Una scena che offende l’Occidente. Lampedusa è la frontiera dell’Europa, queste persone hanno sognato libertà. L’Europa deve reagire con forza e prendere in mano la situazione”. Dopo sedici mesi nulla è cambiato. Lampedusa è sempre più sola e l’idea della prossima estate mette i brividi.

 

Il sindaco delle isole Pelagie, Giusi Nicolini, conosce la sua parte a memoria e per dovere non si stanca di ripeterla. La intervistano sul molo della sua isola, di fianco alle automobili parcheggiate che aspettano di caricare le bare dirette a Porto Empedocle. Solo di un uomo si conosce il nome, gli altri saranno un numero su una lapide. Il sindaco guarda la telecamera, ma non sa più a chi rivolgersi: “Questa tragedia dimostra a tutti che la situazione è gravissima, c’è una pressione molto forte, è la criminalità organizzata che decide quando e quanti farne partire, non hanno scrupoli. La primavera e l’estate saranno molto dure, io non voglio che la mia isola diventi il cimitero del Mediterraneo, non voglio più raccogliere morti. La battaglia di Lampedusa è quella di questi disperati, la loro salvezza è la nostra salvezza. Non so più a chi rivolgermi, il Papa ha già parlato ma forse farebbe bene a far sentire ancora la sua voce”. Il suo appello è destinato a cadere nel vuoto: “Spero che l’Europa capisca che i soldi di Triton potrebbero essere spesi in maniera più utile, per esempio facendo viaggiare in aereo chi ha diritto di asilo. Triton è un’operazione di polizia, ma in questo momento nel Mediterraneo c’è una grande emergenza umanitaria, non l’invasione di un popolo armato. Se non si reagisce nella maniera giusta, finiremo per subire enormi tragedie come queste, che non devono diventare ordinarie”.

 

I racconti dei sopravvissuti li abbiamo già ascoltati altre volte e per questo dovrebbero risultare ancora più insopportabili. “Da alcune settimane – hanno detto due ragazzi del Mali – eravamo in 460 ammassati in un campo vicino a Tripoli in attesa di partire. Sabato scorso i miliziani ci hanno detto di prepararci e ci hanno trasferito a Garbouli, una spiaggia non lontano dalla capitale della Libia. Eravamo circa 430, distribuiti su quattro gommoni con motori da 40 cavalli e con una decina di taniche di carburante”. Il mare faceva paura anche a riva, ma a quel punto nessuno avrebbe potuto rifiutarsi si partire per l’Italia. Più che un viaggio, i due maliani hanno raccontano un’esecuzione di massa: “Ci hanno assicurato che le condizioni del mare erano buone, ma in ogni caso nessuno avrebbe potuto rifiutarsi o tornare indietro: siamo stati costretti a forza ad imbarcarci sotto la minaccia della armi”. C’erano anche molte donne. E bambini. Altri testimoni hanno raccontato di essere stati presi a bastonate, derubati e caricati a forza. Poi, la tragedia. Un gommone è arrivato con il carico pieno (e ventinove morti assiderati). Dagli altri due sono uscite vive solo nove persone, l’ultimo è scomparso tra le onde. Per questa traversata ogni migrante ha pagato ai trafficanti 800 dollari, circa 650 euro.

 

Flavio Di Giacomo dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) è tra quelli che hanno raccolto le testimonianze. “I migranti – ha riferito – sono tutti giovani uomini, l’età media è di circa 25 anni, provengono dai paesi sub sahariani, in particolare da Mali, Costa d’Avorio, Senegal e Niger. Per alcuni di loro la Libia era un paese di transito, mentre altri ci lavoravano da tempo, infatti parlano un po’ di arabo. Questa tragedia conferma ancora una volta come i trafficanti trattino i migranti, soprattutto i sub sahariani, come un carico umano senza valore. Hanno fatto partire oltre 420 persone con condizioni di mare assolutamente proibitive, di fatto mandando la gente a morire”.

 

Nelle prime cinque settimane del 2015, da quando è in vigore l’operazione Triton, gli sbarchi sono aumentati del 60% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il peggio, se possibile, deve ancora venire.

 

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