Nel Medioevo una storia sociale della malattia
SCAFFALE A proposito dell'ultimo volume di Tommaso Duranti, edito da Carocci
SCAFFALE A proposito dell'ultimo volume di Tommaso Duranti, edito da Carocci
La storia della medicina e del pensiero medico ha una lunga tradizione alle spalle, mentre più nuovo è l’interesse per il malato e per la percezione della malattia. Come nota giustamente Tommaso Duranti nel suo Ammalarsi e curarsi nel medioevo. Una storia sociale (Carocci, pp. 236, euro 19): «La lingua inglese è in grado di differenziare tre aspetti connotanti della malattia, che l’italiano, invece, fatica a definire se non per mezzo di parafrasi (…). In sintesi, si definisce disease la malattia dal punto di vista fisiologico, costruibile, accertabile e affrontabile dalla scienza medica; illness è la percezione soggettiva della malattia da parte del malato: essa trascende l’oggettività medica, e vividamente presente a chi ne sia colpito, ma non sempre chiaramente esprimibile a parole; sickness, infine, è la rappresentazione sociale della malattia quale evento negativo, ricostruito sulla base di norme proprie di una società data nel tempo e nello spazio».
TUTTE E TRE LE CATEGORIE sono al centro di questa agile ma informata sintesi sul tema. Si parte con una definizione della malattia e del malato, ossia con un’analisi delle parole salus, egrotus, patiens, infirmus, poiché anche nel latino medievale vi erano distinzioni che sono opportunamente spiegate; Duranti passa poi ai «protagonisti», intendendo così i malati, distinti per genere ed età, e ai terapeuti: non solo quelli ufficiali, ma anche coloro che occupavano spazi nella marginalità, come per la medicina ai limiti del magico, senza dimenticare il miracolo, pure attestato da numerose fonti come quelle agiografiche. Si parla poi dei luoghi di cura, anche questo un settore della ricerca oggi in crescita, per concludere con le grandi paure della società medievale: la lebbra e la peste. Se la seconda, con l’idea di crisi, è tornata d’attualità a causa della recente (e per fortuna meno grave) pandemia, anche gli studi sulla lebbra hanno fatto passi in avanti. I malati del morbo di Hansen non godevano di buona letteratura, in quanto i segni che recavano sui corpi sfigurati erano interpretati come simboli di una condizione di peccato che certamente il malato condivideva con il resto degli umani, anche quelli sani, ma che in lui trovavano un’evidenza particolare.
CONTRO I LEBBROSI si potevano allora mettere in atto forme di esclusione, come i lazzaretti, per i quali è opportuno tener presente il dato obiettivo della contagiosità (che oggi sappiamo non essere virulenta, ma temuta all’epoca e soprattutto, dice Duranti, dopo la diffusione nel XIII secolo della medicina di Avicenna) in una società che non aveva misure diverse dalla separazione per contenere il morbo. È anche vero, però, che non mancava la coscienza della necessità dell’aiuto se non altro per carità cristiana. Come indica il sottotitolo, qui siamo dinanzi a una storia sociale di malati, malattie e terapeuti, nonché a una bella lettura per farsi una prima idea dei fenomeni trattati. Per coloro che fossero in cerca di maggiori approfondimenti, una ricca bibliografia completa il lavoro.
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