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Nel Medioevo l’antichità va verso oriente: la Storia di Stein

Nel Medioevo l’antichità va verso oriente: la Storia di SteinMausoleo di Teodorico a Ravenna, VI secolo, particolare della cupola

Storia Tardo-antica Le avventurose vicende politico-editoriali della monumentale Storia del tardo Impero Romano di Ernest Stein (1891-1945), ora tradotta da Aragno: l’opposizione al nazismo e alla lingua tedesca, l’esilio...

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 24 aprile 2022

Ci sono libri – anche libri insospettabili, apparentemente confinati negli imperturbabili recinti di questo o quello specialismo accademico – che racchiudono in sé per intero le tempeste dei loro tempi. È il caso della Storia del Tardo Impero Romano di Ernest Stein (1891-1945), tuttora una fra le esposizioni più minuziose – e ponderose: i due volumi, divisi in quattro tomi, superano le milleottocento pagine – delle vicende di Roma e Bisanzio fra III e VI secolo, recentemente tradotta da Pasquale Sacco per i tipi di Nino Aragno («Biblioteca Aragno», € 160,00).
Discendente di una famiglia ebraica secolarizzata della Galizia austro-ungarica, Stein si laureò a Vienna, divenendovi già nel 1919 libero docente. Scolaro di Ludo Moritz Hartmann – e dunque allievo indiretto di quel Theodor Mommsen che, benché «stanco e tutto impolverato dal percorso per le strade della filologia» (così Wilhelm Dilthey), fu il propiziatore della prima, grande stagione di ricerche sul Tardoantico –, Stein ereditò dal maestro uno speciale interesse per la storia delle istituzioni, che mise a frutto sin dai primi studi che ne segnarono l’approdo alla bizantinistica. Trasferitosi in Germania negli anni venti e divenuto nel 1931 professore straordinario a Berlino, Stein fu raggiunto dalla notizia della presa del potere di Hitler durante un soggiorno a Bruxelles. Fra i più precoci oppositori del nazionalsocialismo, lo studioso – nel frattempo convertitosi al cattolicesimo – non fece da allora mai più ritorno in terra tedesca: nominato professore di Storia bizantina prima a Washington e poi a Lovanio, dopo l’invasione nazista del Belgio dovette rifugiarsi in Francia, dove visse in incognito per due anni e mezzo. Nel dicembre 1942, tramontata l’ipotesi di essere assunto come bibliotecario a Beirut e con la Wehrmacht ormai padrona della Francia meridionale, Stein si rifugiò in Svizzera, prima a Ginevra e poi a Friburgo, portando con sé, come unico bagaglio, la cartella in cuoio contenente il suo manoscritto; la sua ‘fuga senza fine’ – così l’avrebbe forse definita un altro galiziano errante, Joseph Roth – si concluse solo con la morte, avvenuta nel febbraio del ’45, a poche settimane dalla definitiva caduta del Reich e dal progettato rientro a Lovanio.
Le traversie editoriali della Storia del Tardo Impero Romano sono inestricabilmente intrecciate a quelle patite dall’autore: se il primo volume, che copre gli anni compresi fra l’ascesa di Diocleziano e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, fu pubblicato in tedesco nel 1928 da uno Stein trentasettenne e fresco di nomina presso la Römisch-Germanische Kommission di Francoforte, il secondo uscì soltanto postumo, per le cure della vedova Jeanne e dell’amico Jean-Rémy Palanque, e in lingua francese: dal 23 marzo del 1933 Stein decise infatti di non scrivere più un rigo nella sua lingua madre, né di collaborare più con alcuna rivista del suo Paese. Fu un lavoro portato avanti caparbiamente, negli anni dell’esilio e della clandestinità, a dispetto di difficoltà immense nel reperimento del materiale bibliografico, solo in parte sopperite dal sostegno di una rete internazionale di sodali, e interrotto dalla morte poco prima della conclusione del libro, che doveva simbolicamente coincidere con la fine del regno di Giustiniano; fu proprio Palanque che, «con discrezione e non senza imbarazzo», completò la stesura dell’ultimo capitolo, e più tardi si adoperò anche alla traduzione in francese del primo volume, apparsa nel 1959.
Per ambizioni e concezione, la Storia del Tardo Impero Romano non si sottrae al confronto con le due più rilevanti opere-summa sull’epoca tardoromana, il Decline and Fall di Edward Gibbon (1776-1789) e soprattutto la Geschichte des Untergangs der antiken Welt di Otto Seeck (1895-1920), altro allievo di Mommsen, un vero e proprio classico dell’epoca. La prospettiva di Stein è tuttavia in larga parte antitetica rispetto a quella dei predecessori, non solo per l’abdicazione, evidente fin dal titolo, al tenace paradigma interpretativo del Tardoantico come decadenza, ma soprattutto per la rinuncia alle robuste impalcature ideologiche che ne sorreggevano le costruzioni storiografiche. L’appassionata, umorale vis volterriana di Gibbon e il peculiare darwinismo rovesciato di Seeck, che riconduceva la caduta di Roma al controverso processo dell’«eliminazione dei migliori», cedono così il passo a un’esposizione rigorosa e misurata, in cui l’orgoglio del pronome di prima persona è ammesso soltanto nei rinvii ai propri studi del passato, e a una ricostruzione tutta fondata sulla testimonianza delle fonti, programmaticamente votata a rendersi accessibile al controllo della critica. Emblematici dello stile argomentativo di Stein sono così i ventisei excursus conclusivi, ricavati da Palanque da esorbitanti digressioni a piè di pagina e costituenti ciascuno un piccolo gioiello di acribia ed erudizione, fra cui si segnala almeno la serratissima ricostruzione della cronologia delle opere di Giovanni Lido.
Fin dall’Introduzione, Stein si misura con la difficile individuazione delle invarianti morfologiche dell’età da lui alternativamente definita ‘tardoromana’ o ‘protobizantina’, e concepita non tanto come «la transizione dall’Antichità al Medioevo», ma come «l’Antichità nel Medioevo». Senza nascondere le insidie implicate dalla perimetrazione geografica e cronologica di un campo disciplinare per definizione ‘di frontiera’, i cui confini sono «as indefinite as the precise beginning of the fog» (così Henry Meville Gwatkin nel volume che, nel 1911, inaugurò la Cambridge Medieval History), Stein ne fissa con lucidità i tratti distintivi nello spostamento del baricentro politico verso Oriente, nella sostituzione del latino con il greco come lingua dell’apparato statale, e nella definitiva supremazia del Cristianesimo. Grande esperto degli assetti giuridico-amministrativi del dominio di Roma, Ravenna e Bisanzio, Stein consacra a questi temi alcuni capitoli che, nonostante le inevitabili correzioni di dettaglio, restano attuali a quasi un secolo dalla loro stesura. Dall’esposizione delle intricatissime ramificazioni delle dignità prefetturali di V secolo, così come dall’indagine delle strutture di governo dell’Italia ostrogota (che in più di un punto correggono Mommsen) o della politica fiscale del regno di Anastasio, traspare così una difesa ‘anti-weberiana’ dell’impalcatura burocratica della compagine imperiale, da cui emerge in controluce la nostalgica fisionomia dell’idealtipo austro-ungarico; e in questo senso va letta anche la riabilitazione del Codex Theodosianus, in cui, a dispetto della liquidatoria archiviazione come «pietosa abborracciatura» da parte di Seeck, si legge il coronamento dell’unità giuridica fra le due parti dell’impero, prima del suo inevitabile crollo.
La storia istituzionale di Stein si nutre più di fatti che di personalità, anche se nel suo dipanarsi si stagliano con maggiore nettezza alcune figure, come un Costantino già pienamente ‘post-burckhardtiano’ o Giuliano l’Apostata, «con Cicerone, la personalità dell’Antichità che noi conosciamo meglio»; ma più di tutti colpiscono i ritratti di Teodorico, che dopo due decenni «di massacro e devastazione» fu animatore dell’ultimo ritorno di fiamma della cultura romana, e di Giustiniano, nella cui fine si proietta in qualche misura quella dello stesso Stein. Storia a sé fanno i giudizi riservati a storiografi e letterati: certo oggi non siamo più abituati a prese di posizione come quella su Sidonio Apollinare, la cui poesia va lasciata «a coloro, oggi numero esiguo, che provano diletto a questo tipo di letteratura»; ma proprio il confronto con l’attuale rivalutazione del poeta aquitano aiuterà a misurare la portata dell’esplosione di Tardoantico che ha contrassegnato la critica degli ultimi decenni, in parte preconizzata dagli elogi riservati a Claudiano e Corippo, oltre che dal celebre giudizio su Ammiano Marcellino, «il più grande genio letterario che il mondo abbia visto fra Tacito e Dante».
Com’è forse inevitabile, la complessa stratigrafia redazionale della Storia si rifrange anche sulla fisionomia dell’edizione italiana: così – ma solo nel primo volume, pur tradotto dall’originale tedesco – il lettore troverà segnalate fra parentesi le integrazioni bibliografiche dell’edizione francese del ’59, mentre l’aggiornamento del secondo volume è fermo al ’45, per la precisa volontà di Palanque di astenersi da ogni intervento sulle carte dell’amico. Certo non sfuggono le difficoltà che avrebbe implicato la mise à jour di un lavoro di tale mole e dottrina, e si perdoneranno volentieri al traduttore le insidie annidate in alcune delle fittissime note; meno felice mi pare la decisione di stampare l’opera senza corredarla di alcuna avvertenza al lettore, il quale – se non avrà l’accortezza di leggere i risvolti di sovraccoperta – dovrà attendere il terzo tomo per essere avvinto, grazie alla toccante Premessa di Palanque, dalla sorte di Stein e del suo libro.

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