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Nel mattatoio dei sentimenti

Nel mattatoio dei sentimentiUna scena del film, sotto la regista Ildikò Enyedi

Cinema In competizione alla Berlinale il film «On Body and Soul» che segna il ritorno della regista ungherese Ildikó Enyedi. In una dimensione onirica l'unione misteriosa tra due esseri umani

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 febbraio 2017

Ildikó Enyedi era apparsa all’improviso, quasi una stella come le due protagoniste del suo film d’esordio, l’incredibile Il mio XX secolo nel quale la giovane regista ungherese tesseva con dolcezza dai toni fiabeschi le vicende del Novecento nella vita di due giovani donne, due ragazzine che arrivano da spazi sconosciuti sulla terra, e che vedono i loro destini unirsi indissolubilmente a quelli della Storia che li circonda. Era il 1989, tutto poteva cambiare di nuovo e per sempre, il Muro di Berlino era crollato, l’Urss era finita, e le realtà dei paesi che facevano parte della sua influenza, come l’Ungheria potevano prendere una via indipendente.

Da allora sono passati  quasi trent’anni, Enyedi ha girato altri film, non molti guardando la sua filmografia ma sappiamo che specialmente con il governo Orban in Ungheria fare cinema – come più in generale il lavoro di un artista – è diventato molto difficile. C’è un film nel 2008, First Love e poi una serie tv (scelta obbligata in molti luoghi del mondo…) Fino a questo On Body and Soul presentato ieri in concorso, nella giornata già carica di proiezioni – ma a Berlino si deve fare attenzione a non farsi affascinare dalle promesse, per esempio The bomb di Kevin Fors nella Berlinale Special, con musica dal vivo, è una completa nullità di sperimentazione, che accumula varie immagini militari per dirci la storia delle bombe nucleari. Il footage è banale, la musica anche. Peccato.

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Ma torniamo a On Body and Soul nel quale Enyedi ritrova almeno un po’ quel tocco da favola del suo primo film, l’unione misteriosa che può accadere tra due esseri umani, anche sconosciuti, forse legati da un filo misterioso, da un’affinità che è quella della solitudine, di un sentimento che li allontana dal mondo. In fondo On Body and Soul è una storia d’amore che non segue le traiettorie (narrative) abituali, due si incontrano, si piacciono, si studiano poi si baciano e fanno l’amore anche se l’attrazione a distanza tra i due protagonisti è densa di erotismo e sensualità. È il mistero di uno sguardo obliquo, la palpitazione impossibile, la sorpresa spaventosa e insieme magica di scoprire qualcuno che vive nel tuo stesso sogno, anche se impossibile, anche se doloroso.

Maria (Alexandra Borbely) è la nuova ispettrice del mattatoio. È silenziosa, poco socievole, molto precisa, con una memoria «abnorme» – come dice lei stessa a cui non sfugge nessun dettaglio. I colleghi la guardano con diffidenza, le donne la trovano arrogante, gli uomini cercano di corteggiarla ma lei con i suoi abiti monastici non risponde neppure. La temono anche, perché applica le regole senza concessione, qualcuno si lamenta col capo (Geza Morcsàny) un uomo anziano, solitario come lei, con una paralisi al braccio e una vita scandita dal lavoro e dalle serate davanti alla tv. Finché al mattatoio, dove le bestie filmate in frontale rimandano all’obiettivo la loro consapevolezza rassegnata (non si può che essere vegetariani a vedere cosa accade in un mattatoio) qualcuno ruba una potente sostanza per sedare i tori, aggredendo il sorvegliante.

La polizia indaga, manda una psicologa, «oca giuliva con grandi tette» la bolla dopo il loro incontro Endre, e l’uomo e la ragazza scoprono di avere quasi ogni notte lo stesso sogno nel quale sono due cervi, in uno strano bosco innevato, davanti al ruscello. Non scopano, no, rispondono entrambi alla psicologa, e però quella scoperta li avvicina. Non sappiamo di loro, intuiamo ferite, rotture, l’infanzia di lei tra istituti e terapeuti che non le hanno fatto guarire la paura di esser toccata e il bisogno di seguire le regole con precisione cosí come i gesti ripetitivi della vita. L’ignoto è uno spavento, un trauma, forse una sofferenza…

Dalle prime sequenze, piuttosto dure che restituiscono il ciclo della macellazione degli animali si arriva agli interni geometrici, senza sbavature dove vivono i due personaggi, così simili alle loro teste; corpi e anime, i movimenti si specchiano nelle geometrie dei luoghi, nella condizione del loro quotidiano.

Si possono probabilmente leggere molte cose in questo film, non sempre riuscito nella sua ambizione, e nel controllo delle scelte narrative e di regia, la metafora dei nostri tempi, l’isolamento, l’impossibile empatia (quasi post-antonioniana ma certo Antonioni mai avrebbe messo piede in un macello). Io preferisco vederci una strana storia d’amore, punteggiata di gesti goffi, di una tenerezza che sembra impossibile tra le stanze piene di sangue degli animali ogni giorno, del bisogno di credere che uscire dalle proprie nevrotiche paure – degli altri, del mondo, di amare, di stare male – è possibile. Forse non accade ma ci si può provare, fino a sembrare fuori di testa. Può sembrare contorto come tutto ciò che non si riconosce, sospensione del reale per la sua essenza, un paesaggio indistinto che appartiene al vissuto. Un po’ come i film della regista che si avventurano su territori eccentrici, compiendo detour anche rischiosi.

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