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Nel mare della coscienza di Pierre Loti

Divano Dalla tolda del veliero Flore, fregata della Marina francese, la mattina del 3 gennaio 1872 Louis Marie Julien Viaud, allievo ufficiale di 22 anni, osserva Rapa Nui, l’isola in vista […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 8 novembre 2019

Dalla tolda del veliero Flore, fregata della Marina francese, la mattina del 3 gennaio 1872 Louis Marie Julien Viaud, allievo ufficiale di 22 anni, osserva Rapa Nui, l’isola in vista da poche ore, che «si disegna leggera in direzione nord-ovest», verso la quale sta navigando. «Lentamente si avvicina, si precisa, l’isola strana; sotto il cielo scuro di nuvole, ci mostra crateri rossastri e rocce tristi. Soffia un gran vento e il mare si copre di schiuma bianca». La Flore resterà cinque giorni all’ancora in una baia di Rapa Nui. Il giovane Viaud considera quel nome polinesiano e quel nui che a lui francese suona come nuit, notte.

«Anche solo nei suoni di queste due parole mi sembra che ci sia tristezza, selvaggeria, notte…». Sotto la coltre di nubi nere, che offusca e smorza la luce di quel mattino, una sensazione di oscurità diffusa muove l’immaginativa di Viaud. Guarda all’isola che si presenta avvolta da una caligine che pare notturna e si chiede: «notte dei tempi, notte delle origini o notte del cielo, non si sa davvero di che notte si tratti». La missione della Flore è di portare in Francia un Moai, una delle misteriose statue in pietra sparse numerose negli arenili e nelle brulle vallate dell’interno. Isola di Pasqua fu chiamata Rapa Nui, quando, nel giorno di pasqua del 1722, fu avvistata dal capitano olandese Jacob Roggeveen, lontana da ogni rotta, una scheggia vulcanica che non offre, secondo un suo resoconto, un attracco agevole e sicuro.

Dei cinque giorni a Rapa Nui, Viaud tiene un diario che nell’agosto di quel medesimo anno 1872 verrà pubblicato a Parigi sulla rivista Illustration. Nel 1899, accolto nell’Accademia di Francia, col nome di Pierre Loti che lo ha reso scrittore famoso, Viaud ristampa quelle pagine giovanili che ora l’editore Bordeaux, tradotte da Paolo Bellomo – L’isola di Pasqua. Diario di un allievo ufficiale della Flore – offre al lettore italiano, in un volume corredato dai disegni dei Moai eseguiti dal vero da Loti in quel gennaio del 1872. Sì, le enigmatiche grandi sculture in pietra («non hanno corpo, sono solo delle teste colossali che vengono fuori dalla terra in cima a un lungo collo e drizzandosi come per sondare l’orizzonte lontano, sempre immobile e vuoto»); e, sì, il contatto con i pochi nativi («un po’ di amicizia era davvero sorta tra noi, dalle nostre profonde differenze forse, o forse dalla nostra comune fanciullaggine»); ma quanto afferra Loti a Rapa Nui è il senso dell’oscuro primordiale, del remoto dei tempi che lo scenario dell’isola gli pone innanzi: «in quest’isola, tutto sembra fatto per perturbare l’immaginazione», scrive.

Un originario, un immemoriale che gli appare consolidato nella natura inospite dei luoghi, certo, ma che attraversa il suo animo e lo inquieta, disorientato e confuso in quel percepire la presenza d’una umanità ancestrale che avverte racchiusa nella stagnante tenebrosa atmosfera, quasi resa tangibile dalla permanenza del buio. «Come svegliandoci da un incubo di buio e di pioggia (…) il giorno comincia a spuntare sotto nuvoloni spessi e grigi (…) il cielo ha come un unico velo, tranne uno squarcio a livello dell’orizzonte orientale, che lascia intravedere un bagliore giallo che annuncia la fine della notte». Annota, il 4 gennaio, di un raggio di sole per constare che «anche questo strascico di luce e il suo triste sfolgorio mi sembrano qualcosa di estraneo, di lontanissimo, di infinitamente anteriore. (…) Tristezza dei primordi umani forse, che deve aver confusamente continuato ad abitare la terra su cui mi appoggio».

Un turbamento, una stupefazione restituiti, poi, e come rappresi nelle sonorità primigenie che Loti ascolta nelle parole pronunciate nella loro lingua dagli abitanti. E così questo diario di cinque giorni mostra come Loti sia in tale maniera coinvolto dal quel paesaggio e da quelle voci, da sentirsi spinto, diresti costretto, ad una introspezione che lo interroga nella sua umana interiorità nel profondo. Come se la latitudine estrema di Rapa Nui e la sua lontanissima posizione avessero preso stanza nel mare della coscienza di Loti. «Tekaouhangoaru è il primo nome che i polinesiani diedero a quest’isola; e più del nome Rapa Nui, Tekaouhangoaru suona di selvaggeria triste, preda di vento e tenebre».

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