Della bolzanina Emma Cantimori Mezzomonti (1903-1969) si sapeva finora molto poco. Per i più era solo la moglie dello storico Delio Cantimori e aveva con lui collaborato per la traduzione del Manifesto del partito comunista commissionatale da Einaudi nel gennaio 1945. Il testo fu consegnato all’editore alla fine del ’47 a firma della sola Emma, e uscì nel 1948, dopo la sconfitta elettorale, ad aprile, del Fronte popolare. Anziché celebrare un’auspicata vittoria consentì di leggere pagine che evocavano, con un ampia antologia di saggi e interventi coevi alla stesura originale, le idee alla base di un movimento che si prefiggeva di cambiare il mondo. Ma l’avvertenza in apertura usava toni tutt’altro che propagandistici: «Ho cercato di offrire soltanto un modesto sussidio per i lettori italiani, senza alcuna interpretazione più ambiziosa, né storica, né politica, né ideologica».
Massimo Mastrogregori, che è stato, tra l’altro, docente universitario a contratto alla Sapienza di Roma e a Parigi e ha pubblicato di recente (2016) una densa biografia di Aldo Moro, con L’infiltrata (il Mulino, pp. 203, €16,00) esplora il «laboratorio» di Emma e Delio e fa uscire la donna dall’ombra che l’aveva avvolta nascondendola dietro un nome da citare per deferente obbligo. A diciannove anni l’energica e volitiva Emma si trasferì a Roma e, dopo aver peregrinato come insegnante, ritornò nella capitale, dove si fece strada fino a divenire segretaria (dal ’32 al ’35) dell’Istituto italiano di studi germanici di Villa Sciarra-Wurts. Era un luogo di continui scambi diplomatici e intellettuali, un osservatorio che permetteva di intessere relazioni di peso e di intercettare disegni e legami tra governo tedesco e governo italiano. Si pensò addirittura di affiancarlo a un centro di studi per incrementare la conoscenza dei due Paesi nel settore industriale. Emma aveva maturato convinzioni comuniste e si era immersa pienamente nella rete della cospirazione clandestina guidata dal Centro interno del PCd’I. Sparuti gruppetti giovanili che si andavano formando agivano tra Napoli e Roma. Vi compaiono figure destinate a ricoprire ruoli determinanti nella Resistenza. In questa dispersa costellazione non era infrequente che si svolgessero vite parallele di misteriose personalità sotto pseudonimo. Alcuni nomi: Manlio Rossi Doria, Giorgio Amendola, Ambrogio Donini, Emilio Sereni.
La Mittempergher, che dal ’27 aveva italianizzato il cognome in Mezzomonti, era membro di un’organizzazione che godeva di una certa autonomia dal partito ma era attentamente controllata dalla polizia, il Soccorso Rosso, dedita a raccogliere e distribuire aiuti per i militanti in difficoltà. Secondo una testimonianza tarda, da soppesare, galeotto dell’intesa di Emma e Delio, che dal 1926, a quanto sembra, era iscritto al PNF, non fu tanto l’Istituto di Villa Sciarra quanto il nebbioso universo dei cospiranti. L’autore si sofferma su centinaia di situazioni o episodi, consapevole che una biografia non si costruisce isolando il soggetto chiamato alla ribalta e ignorando contesti e reciproche influenze. Fatto è che il 22 febbraio 1936 l’illustre professore trentaduenne, noto per la sua vicinanza a Giovanni Gentile, più tardi attratto dal corporativismo proprietario bolscevizzante teorizzato da Ugo Spirito, si sposò con la giovane e combattiva Emma. E da allora si può parlare di quella che scherzosamente Giorgio Amendola battezzò la cellula Mezzomonti-Cantimori.
Nell’annunciare la sorprendente unione Delio scrisse a Carlo Cordiè: «guarda un po’, il Gatto si sposa: che te lo saresti immaginato?». E l’amica Anna Maria Ratti confidò a Spirito: «Cantimori dice di essere geloso di lei ma in realtà è felicissimo di aver trovato un aiuto! Ho paura che saremo più volte chiamati a mettere il famoso dito». Non è arbitrario parlare di un doppio gioco condotto dalla coppia con astuzia e prudenza difficilmente misurabili. Mastrogregori lascia parecchi interrogativi aperti, ignora tale carte edite. La sua asciutta biografia non è un racconto a tutto tondo, un mosaico che pretenda di far luce su tutta un’esistenza. Come è corretto fare di fronte a complesse vicende da non romanzare. Si ha l’impressione che ad ancorare fortemente Cantimori all’impegno comunista sia sta lei, fino al drammatico 1956. Cantimori abbandonò senza clamore – ennesima disillusione – il partito. Lei rimase iscritta fino alla morte, anche se si dette totalmente agli studi, con il pudore che l’aveva sempre distinta. Certe svolte o ambiguità rimarranno indecifrabili.
Prima di dare alla Normale e a vecchi amici i pezzi più personali dell’archivio di famiglia, distrusse pagine del diario del marito, forse per eliminare sgradite pagine sentimentali, forse per proteggerlo e coprire momenti che preferiva fossero dimenticati. Emma non amava palinodie e ripensamenti, mentre Cantimori si attardava a rimuginare amaramente su sconfitte ed entusiasmi non dissimili da quelli degli utopisti che aveva inseguito lungo il suo mirabile viaggio storiografico a raggio europeo.