Scandita dalle diverse pettinature e tagli di capelli, dalle parrucchiere frequentate e poi rinnegate, e soprattutto dai sentimenti e dalle attitudini della protagonista rispetto alla propria condizione tricologica (e ontologica), la vita di Mila, nata in Angola ma cresciuta in Portogallo, si riconnette a quella dei suoi antenati e del suo continente ancestrale in una serie di eredità, riconoscimenti, rifiuti e riconnessioni che fanno di Questi capelli (La Nuova Frontiera, pp. 157, euro 15,90) di Djaimilia Pereira de Almeida una saga familiare sui generis, un’epopea di migrazione e dislocazione, di appartenenza e pacificazione con le proprie travagliate origini.

La sua eroina nel libro, nata in Angola e cresciuta in Portogallo, è profondamente ossessionata da questioni di identità e appartenenza, quanto della sua esperienza personale e familiare vi si riversa?
L’arco della vita di Mila e molto del suo dramma interiore (sebbene con importanti differenze) trova corrispondenze in aspetti della mia vita. Ero interessata a trovare uno spazio nel mio linguaggio per la sensibilità di una ragazza nera come lei, uno spazio per autodefinirsi, con i suoi drammi e le sue angosce, ma anche per la speranza con cui intraprende il suo cammino. Trovare uno spazio per qualcuno come Mila nella letteratura del mio paese è stata la molla per scrivere Questi capelli.

Quali sono i suoi personali sentimenti rispetto a entrambi i paesi?
Sono cresciuta e ho vissuto tutta la mia vita in Portogallo, nei sobborghi di Lisbona. L’Europa è il mio riferimento culturale e affettivo, il paesaggio della mia vita. Anche se nei miei libri torno sempre in Angola, forse l’Angola è la mia patria letteraria. Credo che sia così perché non avendo vissuto in Africa, ho creato un’Angola immaginaria, dove molti dei miei libri sono ambientati, uno spazio che effettivamente non esiste. Un’Angola di sogni e fantasmi.

La storia dei capelli crespi di Mila è quella «di almeno due nazioni, e per estensione, la storia indiretta delle relazioni tra più continenti: una geopolitica». Potremmo dire quindi che i capelli di Mila sono i suoi antenati e la sua connessione all’Africa?
Senza dubbio. Sono i suoi capelli che la connettono alle sue origini. O almeno la connessione più diretta che lei abbia visibile sul corpo, dalla quale non può separarsi.

Come «addomestica» dunque le tensioni interne ed esterne della sua identità europea e africana?
Mi sento spesso in un limbo e tra due mondi. Sebbene mi sia da sempre sentita totalmente europea e non sia riconosciuta esattamente come africana dalla mia famiglia e dai miei amici africani. Abito lo spazio dell’estraneità, del non sapere da dove vengo. Tuttavia, considero il fatto di non avere esattamente un luogo come un punto di vista privilegiato: qualcosa che arricchisce la maniera in cui vedo il mondo, e che non sarebbe possibile se io fossi certa della mia provenienza. Appartenere a diversi luoghi è una ricchezza aggiuntiva e un grande stimolo alla creazione letteraria, che implica disagio e insicurezza.

Mentre la famiglia di Mila la percepisce come decisamente portoghese, c’è un sé più complesso, una complessità suscitata dall’esperienza di tentare costantemente di assimilarsi alla vita portoghese. Quanto è diversa la percezione del senso di appartenenza, razza e nazionalità in relazione alle età e alle generazioni all’interno della sua famiglia e nell’esperienza della diaspora africana? Possiamo riconoscervi una componente di razzismo interiorizzato?
Direi proprio di sì, a un certo livello. Sicuramente nel caso di Mila. A un certo punto, non ha bisogno di essere vittima del pregiudizio per sentirsi esclusa, per sentire che non appartiene. Mila è un personaggio ellittico dalla grande timidezza, un’ironica introversa. Credo che l’ironia sia la sua arma per combattere questo razzismo interiorizzato, che anche lei manifesta. La capacità di ridere di se stessa e la maniera paranoica in cui a volte vede razzismo ovunque è ciò che la aiuta.

La molteplicità del romanzo funge da specchio deformante: come potremmo definirlo stilisticamente?
Una tragicommedia e una biografia fittizia. Confuso come una testa di capelli crespi. L’ho pianificato man mano che lo scrivevo e non prima, ecco perché forse la profusione di generi e la sua ibridità.

Cosa intende quando dice che «la memoria è un demagogo che non ci permette di scegliere cosa vedere e prospera sulla tentazione di agognare ciò che non siamo stati»?
Lasciando l’Angola da bambina, Mila non potrà mai sapere chi sarebbe stata se non si fosse mai trasferita in Europa. Questo «altro sé», quello che lei sarebbe stata altrimenti, è il più grande dei misteri, non lo potrà mai incontrare, ma lo ricorda come un lontano parente, mistificandolo. Esiste la seducente tentazione di mistificare ciò che non siamo stati, che avremmo potuto essere, i nostri «sé alternativi», anche se è una pratica vana e auto-indulgente. A un certo punto dobbiamo dimenticare quell’altro sé; nel bene o nel male, siamo chi siamo ora.

Perché crede che così tanti premi letterari internazionali in questi ultimi anni vengano vinti da autori africani? Era forse la voce che mancava?
Può darsi. Non saprei darne una ragione, ma so che è positivo immaginare che sempre più autori africani siano riconosciuti per il loro lavoro dopo così tanti anni in cui non lo sono stati. Che questo riconoscimento possa corrispondere a una maggiore apertura dei lettori verso letterature lontane, verso una maggiore proliferazione di lingue e narrazioni, molte delle quali sono raramente udite, sarebbe una gioia e un segno di speranza.