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Nel futuro con la bussola delle disuguaglianze

Nel futuro con la bussola delle disuguaglianzeMilano, una famiglia sfrattata trova riparo sotto un ponte (24/04/2020) – Claudio Furlan/LaPresse

Next Generation Eu Il Recovery Fund ci pone di fronte alla scomoda domanda: «chi desideriamo essere?» Non solo o non tanto come individui, ma come collettività organizzata

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 dicembre 2020

Non è facile ammettere che il Recovery Fund ci obbliga a occuparci del nostro futuro e, soprattutto, ci chiede di fare conti con le implicazioni che questo, come fatto sociale e culturale, comporta per il nostro vivere in comune. Il Recovery Fund ci pone di fronte alla scomoda domanda: «chi desideriamo essere?» Non solo o non tanto come individui, ma come collettività organizzata. Il timore più grande non è per il «futuro incerto», ma anzitutto per le condizioni necessarie a immaginare un futuro condiviso. Condizioni che obbligano a chiederci con chi costruire il futuro, attraverso quali conflitti, per il tramite di quali confronti pubblici, mediante quali impegni credibili.

Il futuro è un fatto culturale, sostiene l’antropologo Arjun Appadurai, e dipende dalla capacità di aspirare delle persone. Chiederci come usiamo il nostro tempo e interrogarci se lo stiamo utilizzando bene, facendo i conti con la finitezza e caducità delle nostre vite, è «l’essere generico» che ci caratterizza come esseri umani, scrive Martin Hagglund in Questa vita (Neri Pozza 2020).

Qualità, questa, che non ha nulla di naturale e non è data una volta per tutte, ma dipende dalle condizioni materiali e dalla libertà sostanziale di cui godiamo. Così, la capacità di aspirare è fortemente segnata dalle diseguaglianze materiali e immateriali relative a ricchezza, capitale culturale, autostima e senso del controllo. Il futuro non è di tutti, ma solo di chi ha il potere di immaginarlo.

Fare i conti con le condizioni necessarie per immaginare chi vogliamo essere insieme significa non chiudere gli occhi di fronte alle diseguaglianze che impediscono una reale democratizzazione del futuro. Nelle società in cui la capacità di aspirare è privilegio di pochi, appannaggio di «élite del tempo», i progetti biografici, la scala delle priorità e le immagini del futuro di una minoranza diventano i repertori culturali che danno forma alle aspirazioni legittime per tutti, anche di chi non ha le risorse per ottemperare alle false promesse di un domani immaginato da e per i pochi. Ciò genera delusione, aspirazioni mancate, disallineamento tra desideri e risultati e, quindi, rabbia, risentimento, apatia e distopie quotidiane. Non c’è futuro senza la costruzione condivisa di un «noi» proiettato nel tempo a venire: chi vogliamo essere come collettività? A cosa aspiriamo?

La pervasiva carenza di meccanismi politico-istituzionali di costruzione del «noi» lascia spazio a ripiegamenti sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della nostalgia da parte degli imprenditori della paura. Senza un progetto comune, non c’è un vero «noi» proteso verso il domani. Ma solo una somma di «io» orientata al passato. E da una somma di «io» nativisti, come dai diamanti, non nasce niente. Non ogni tipo di società è ugualmente adatta a esprimere un orientamento collettivo al futuro, così come non lo è ogni tipo di organizzazione economica o politica. A fare la differenza è la presenza di luoghi concreti, di ramificazioni territoriali della sfera pubblica, di corpi intermedi e delle loro necessarie intermediazioni. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo orientato al futuro solo se esistono luoghi terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano impegni condivisi, proiettati nel futuro e accessibili a tutti. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quante «opportunità di futuro» ci offre lo spazio pubblico? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni e riflessioni dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali?

Dove i futuri possibili prendono di petto le diseguaglianze, i poteri, le diversità individuali e territoriali che ci connotano qui e ora come collettività? Dove, cioè, un problema privato – occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita – si traduce in una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento potenzialmente validi per tutti? E dove questa messa a tema si confronta con l’alterità e le diseguaglianze di potere riconoscendo i bisogni, i valori e gli interessi di cui sono portatori i soggetti marginali? Riconoscendo cioè la “voce” di chi occupa una posizione periferica, o perché privo di cittadinanza pur vivendo da anni nel nostro Paese, oppure perché residente in uno dei tanti luoghi che non contano, o in quanto vittima di diseguaglianze di classe.

I marginali, gli «altri», in queste e altre accezioni, devono essere riconosciuti, nella loro capacità di futuro, anzitutto come persone morali. Soggetti marginali i cui comportamenti testimoniano la validità di un sistema di valori e interessi da cui dipende il futuro di tutti. Pensiamoci: quanta paura abbiamo di confrontarci in modo radicale con le diseguaglianze e le diversità che costituiscono le condizioni necessarie per immaginare, oggi, il nostro futuro? Da qui, più che vuote parole chiave in ossequio allo spirito del tempo, deve partire la discussione pubblica sulle risorse del Next Generation Europe.

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