Nel furore indiavolato di Lino Cannavacciuolo
Musica Un nuovo album per l'artista campano «Via Napoli»
Musica Un nuovo album per l'artista campano «Via Napoli»
La prima forma di musica napoletana, conosciuta in tutte le corti d’Europa nel XVI secolo, è la villanella, la trasposizione delle antiche poesie popolari messe in strofe ritmate con l’accompagnamento di uno strumento a corde. Da lì, da un brano rinomato, Stu core mio del fiammingo Orlando di Lasso, maestro di cappella al seguito di Ferdinando Gonzaga e autore di un migliaio di composizioni originali, il musicista flegreo Lino Cannavacciuolo, ha fatto cominciare il suo atto d’amore per canzoni e ritmi leggendari, per il patrimonio storico di suprema bellezza, il suo viaggio sulfureo attraverso 500 anni di musica della capitale del mezzogiorno, nel nuovo cd Via Napoli .
IL PERSONAGGIO partenopeo per eccellenza già protagonista di una sua precedente esperienza discografica, Ca’Na, del 2004, ispirato agli affreschi di Pulcinella del Tiepolo, con uno spettacolo commissionato dalla Venice Foundation). Diplomato al Conservatorio e influenzato dalle atmosfere rock-jazz assorbite attraverso Jean-Luc Ponty e i gruppi progressive inglesi, il violinista è da anni impegnato in una suggestiva ricerca personale che l’ha fatto collaborare a lungo con Peppe Barra e scrivere colonne sonore per il cinema e la tv , incidere e produrre dischi, oltre a esibirsi in concerto in Italia e all’estero. In questo progetto, accompagnato da una formazione da camera (Gigi De Rienzo al basso, Pino De Asmundis alle tastiere e Vittorio Riva alla batteria) ha scelto scrupolosamente la dozzina di brani, adattandoli al suo linguaggio ora vivace ora sentimentale compresa una versione particolarmente euforica e coinvolgente di Lo Guarracino, il superclassico d’autore anonimo, primo frenetico esempio di tarantella, con le sue cadenze ripetute.
RICORDANDO la Sonata in Re minore di Domenico Scarlatti, forse l’episodio più dolce e struggente dell’album, con i fantasmi delle danze figurate della società settecentesca. E anche il suo amato alter ego, il violinista, pianista e compositore Giovanni Battista Pergolesi, nato a Jesi e morto a Pozzuoli, di cui ha già interpretato diversi brani dell’opera buffa (come Se tu m’ami) e stavolta si è cimentato con Dolorosa, la parte iniziale dello Stabat Mater, un altro vanto della scuola sonora napoletana, scritta dal musicista, poco prima di morire, nel 1736 a soli 26 anni e trasformata in una nenia trip-hop con la struttura iterativa di archi e basso e il sax soprano di Marco Zurzolo che quasi si salda con le cantilene folk e giaculatorie popolari di Anna Spagnuolo e Patrizia Spinosi a rinforzare l’eterea A saucerful of Secrets, l’omaggio ai Pink Floyd, passati pure all’Anfiteatro Flavio, decenni fa.
Partendo dalla profonda conoscenza della musica classica, il folletto puteolano ha l’argentovivo in corpo, suonando il cordofono e il persiano kemanchè con una carica di energia contagiosa, mischiando sacro e profano, partiture e improvvisazioni in una successione atemporale dove dichiara il suo amore per Pino Daniele con la malinconica Alleria o per gli iniziatori del new sound vesuviano, gli Osanna con Vado verso una meta, per la disperata e carnale Bambenella del commediografo Raffaele Viviani e per l’altro grande studioso della musica tradizionale, il maestro Roberto De Simone e la sua Canna Austina. Tutti brani attuali, con un linguaggio coinvolgente, resi meravigliosamente dal furore indiavolato di questo strumentista dalla tecnica sopraffina e dalla curiosità insaziabile.
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