Nel duplice chiarore, tra invenzioni e riferimenti shakesperiani
POESIA «Riscritture. Versi in atto», una silloge di Francesco Siciliano Mangone per Pungitopo
POESIA «Riscritture. Versi in atto», una silloge di Francesco Siciliano Mangone per Pungitopo
Riscritture. Versi in atto (Pungitopo editrice, pp. 80, euro 10) è un libro di Francesco Siciliano Mangone che si compone di poesie in senso stretto e di «invenzioni sceniche», ispirate dall’esempio di Brecht. «Riscritture» sono anzitutto quelle della sezione intitolata «soluzioni per machina», termine che rinvia direttamente al gioco scenico e teatrale. Queste quasi sceneggiature riguardano il Coriolano (di Shakespeare già riletto da Brecht), Sik Sik l’artefice magico di Eduardo De Filippo, La tempesta, ancora di Shakespeare.
Se in queste riscritture sceniche prevale l’intento didattico e politico, nelle liriche Sul duplice chiarore avviene un confronto con un strato arcaico dell’inconscio del collettivo, dominato dalla figura di un archetipo matriarcale. Le sorti si compiono «nell’antro della Madre ctonia», «…l’orrido/ che s’appalesa al tellurico materno». In effetti le immagini di Mangone restano sospese in un «duplice chiarore», in un tempo sospeso tra una profondità tellurica e arcaica, e – d’altra parte – «una pluralità germinale insorta che/ chiede spazio al destino tragico». La metafora centrale è un mare mediterraneo, diviso da pericoli opposti, come Scilla e Cariddi, in cui da un lato appare la luce inquietante di una «luna matriarca», e dall’altro incalza «l’incanto che sospende la notte», rievocando il dio che viene di Hölderlin.
IL DUPLICE CHIARORE rinvia a un bellissimo passo di Walter Benjamin, Gabbiani, che culmina in questa frase: «A sinistra ogni cosa restava da decifrare, e il mio destino pendeva da ogni segno; a destra si era ormai realizzato da tempo, e non restava che un unico cenno silenzioso». Nella riscrittura di Mangone possibili sorgenti si oppongono al destino ctonio: il cielo diviso non si riferisce comunque solo a una connotazione spaziale ma anche al tempo storico in cui stiamo sospesi tra ciò che non è più e ciò che non è ancora, «in strati, masse lattiginose di nebulose d’un cielo notturno», come dice una poesia dell’ultima sezione Disiecta membra dove lo stile si fa più arduo e spezzato.
Anche qui si alternano «plurime pulsioni» provenienti da un «corpo muto», mentre in una precedente poesia dedicata a Franco Fortini si evoca una «alterità che salva», in una polarità che è la caratteristica generale delle scritture di Mangone.
D’ALTRA PARTE lo stato di sospensione in cui siamo assume connotazioni direttamente politiche, se il mutismo dei corpi e l’indecifrabilità del futuro e «l’atrofia dell’anima» derivano dall’«astratto che svuota la vita» (termini ripresi dal filosofo Roberto Finelli) e non consente di ascoltare «il borbottio minuto e immanente che/ ci viene dalla carne».
Come afferma Luca Lenzini commentando una precedente raccolta poetica di Mangone, «la parola-chiave diventa allora misura: tra cosa e cosa, vuoti e pieni, prossimità e lontananza, presenza e dimenticanza si gioca l’attesa, una ricerca di senso che passa per il riscatto di quanto è degradato a pura merce» (Lenzini). Come diceva Benjamin, nelle immagini di sogno delle merci è sepolto un desiderio e una figura della felicità, in stato di corruzione e deformazione: ma più che di cancellare nichilisticamente il desiderio si tratta di redimerlo, di coglierne la sfigurata potenzialità utopica; come Mangone nella sua ultima raccolta bisogna riscriverlo, riscrivere le vite umiliate riaprendo il loro «splendore materiale».
Nell’«umbratile cangiamento», nel «costante marame», occorre riattivare un guardo che raccolga «la visione cieca e minuta del puramente possibile».
VIVIAMO IN UN TEMPO in cui l’antico fondo arcaico del mito (fatto di«antiche masse orgiastiche») è sostituito da una superficie iridescente e cangiante di fantasmagorie («nella postmodernità di più agili aggregati transitori»), il che non esclude che «figure tribunizie» si presentino come capi padri-padroni attirando su di sé la proiezione ubbidiente di soggetti passivizzati, grazie al loro «gioco incantatorio», «giostra di immagini incantarate», come quelle che il Sik-Sik artefice magico di turno sciorina ai suoi inebetiti spettatori; «lo stato di sogno di vite nostre diviene assoluto», come afferma il riscritto personaggio di Eduardo nel suo idioletto napoletano-italiano.
Del resto anche i temi e i personaggi shakespeariani del Coriolano e della Tempesta sono «riscritti» trasformando i loro sogni di potere o di magia nell’attuale «spettacolo di corpi/ dispersi frammenti nei consumi». In tale situazione per resistere e aprire il varco di immagini utopiche occorre un certo coraggio come quello che il poeta confida al fantasma di Joyce nella sezione che chiude il libro: «per cogliere alla fine dell’errare la serena ironia della luce e abbandonarsi all’oscurità», una «notte oscura» che coincide col tramonto delle apparenze e il risveglio.
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