Ogni ragionamento sulla pace comporta un alcunché di esortativo, ammonisce e dichiara piuttosto un desiderio, ovvero si articola secondo un tono ottativo e parenetico. La pace è un auspicio (un ideale?) un’istanza che si attesta, convive si direbbe, entro la permanenza attiva e costante della guerra. Così, considerando le vicissitudini delle società e degli stati da che l’umanità ne conserva memoria, ogni posizione volta a volta presa, nel corso dei secoli contro una guerra, mai ha conseguito l’instaurazione permanente de la pace. Si aggiunga, a completare e complicare l’ordine delle ardue questioni relative ai concetti di pace e di guerra, che alla guerra si fa ricorso (e se ne dà giustificazione) pure con l’intento di affermare istanze di libertà.

Il dilemma è: difendere o perseguire la libertà e la giustizia e la dignità a mezzo della guerra o rinunciarvi e accettare un’oppressione pur di interdire la guerra e salvaguardare la pace: questo il punto. Sicché uno stato di belligeranza attiva o momentaneamente sospesa, a memoria d’uomo, non è cessato né cessa mai. Riflessione questa che, nella sua banalità, si pone qui in termini ovvii e consaputi, si dirà. Certamente, ma appunto per questa loro lampante evidenza, son questi i termini che danno conto d’una perpetua e irremovibile realtà, in atto, d’una violenza omicida tra gli uomini. Come, andrà allora detto, della presenza d’un contegno non violento, il comandamento antico «non uccidere».

Scrive Erasmo da Rotterdam ne Il lamento della pace (Querela Pacis, stampata a Basilea nel dicembre del 1517): «Che di più fragile, di più breve della vita umana? A quante malattie, a quanti incidenti non è soggetta! Eppure, nonostante i malanni intollerabili che di per sé comporta, gli uomini nella loro follia si attirano da sé la maggior parte delle proprie sventure, e una tale cecità ne ottenebra la mente, che non avverte nulla di tutto questo. Si gettano a capofitto dirompendo, spezzando, infrangendo ogni vincolo naturale e cristiano, ogni patto; combattono dovunque instancabilmente, smisuratamente, interminabilmente, nazioni in urto con nazioni, città con città, sovrani con sovrani, e per la dissennatezza di due omiciattoli destinati a perire ben presto come la durata d’un giorno, l’umanità intera è sconvolta da cima a fondo».

Riguardo a questa permanenza infinita della guerra, Erasmo richiama quel passo dell’Iliade (cito dalla traduzione di Vincenzo Monti) dove Omero si chiede: «Il cor di tutte/cose alfin sente sazietà, del sonno/della danza, dell’amore,/piacer più cari che la guerra;/e mai sazi di guerra non saranno i Teucri?». Ed Erasmo commenta: «Il pagano Omero si stupisce del fatto che tra i pagani intervenisse la sazietà anche per cose gradite come il sonno, il cibo, le bevande, le danze, la musica, mentre dell’infelicità della guerra non si è mai sazi. Ciò è ancora più vero tra coloro (i cristiani) che dovrebbero detestare il nome stesso di guerra. L’antica Roma nella sua follia bellica vide pur chiuso qualche volta il tempio di Giano. Come accade che tra voi non vi sia mai tregua dalle guerre?».

Domande e constatazioni che ai nostri giorni mostrano intera la loro attualità, oggi, nel furioso dilagare di uccisioni di inermi, nella sfrenata corsa agli armamenti congegnati per portare micidiali sterminii, attraversano inevase, le medesime dopo sei secoli e ancora senza risposte o soluzioni, l’accorata coscienza di chi invoca, disarmato, la pace, di chi non grida al sangue e incita alla morte.

«Chi ama la guerra, non l’ha vista in faccia» è il detto che, ancora Erasmo negli Adagia, trae da l’Arte della guerra di Vegezio (IV-V secolo d.C.) allorché sconsolato commenta: «Oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie». Ieri come oggi. Situazioni di non belligeranza, momentaneamente attestate in un luogo, sono contemporanee ai conflitti armati che operano con piena violenza in un altro luogo. Nella realtà dei fatti e delle circostanze pace e guerra coesistono indissolubilmente e in maniera stabile nel doloroso consorzio umano.