Cultura

Nel disfacimento dell’umana memoria

Nel disfacimento dell’umana memoriaAli Cherri, Fragments II (courtesy dell’artista e Imane Farès)

MOSTRE Fino a domenica al Museo Egizio di Torino «Anche le statue muoiono»

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 3 gennaio 2019

Si concluderà il 6 gennaio al Museo Egizio di Torino la mostra Anche le statue muoiono (catalogo Franco Cosimo Panini Editore, pp. 168, euro 18). Ai cinefili non sarà sfuggito che il titolo ricalca quello di un breve documentario girato nel 1953 da Alain Resnais assieme a Chris Marker e Ghislain Cloquet. Mentre il film era dedicato all’alterazione dell’arte africana messa in atto dai colonizzatori europei, la rassegna – alla quale hanno partecipato la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, i Musei Reali e il Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino (Crast) – è incentrata su tematiche di grande attualità: la distruzione e il saccheggio del patrimonio archeologico al fine di mistificare l’identità altrui e annichilire la memoria dei popoli, il valore multiforme delle immagini quali strumento di potere e il ruolo dei musei tra conservazione e appropriazioni / depredazioni. Il progetto scientifico – elaborato da Irene Calderoni, Paolo Del Vesco, Stefano de Martino, Christian Greco, Enrica Pagella e Elisa Panero, i quali hanno anche curato l’esposizione con Carlo Lippolis e Gabriella Pantò – ha avuto il pregio di riunire oggetti del passato e opere contemporanee in un dialogo che, oscillando tra poesia e provocazione, invita ad andare oltre un orizzonte puramente contemplativo.

I VOLTI in pietra calcarea dei governatori di Qau el-Kebir (1900-1850 a.C.) colpiti da damnatio memoriae sfidano le undici stampe fotografiche – raccolte nel 2014 sotto il nome di Anamnesi – che Mimmo Jodice ha selezionato all’interno di un ciclo di immagini realizzate tra il 1986 e il 1995. Si tratta della serie Mediterranea, che si prefiggeva di indagare sul destino delle civiltà antiche, le sorti del nostro patrimonio culturale e la persistenza del passato nel presente. A questo proposito, come non scorgere tra i visi spezzati rinvenuti nelle tombe di Qau el-Kebir e gli sguardi attoniti, impauriti o severi dei soggetti antichi catturati da Jodice, la tragedia del disfacimento dei corpi sottoposti oggi a naufragi, esili e torture? Particolarmente suggestiva è l’installazione Fragments II accompagnata dal video Petrified, già proposti dall’artista libanese Ali Cherri al Sursock Museum di Beirut nel 2016. Nel tavolo senza ombre di Fragments, Cherri raccoglie un variegato gruppo di manufatti archeologici – dalla figura antropomorfa del Perù al Tau Tau indonesiano – che lui stesso ha acquistato frequentando le case d’asta d’Europa, con l’intento di sottolineare il processo di morte degli oggetti decontestualizzati.

ALTRA VOCE CRITICA a spiccare nell’allestimento è Liz Glynn, nata a Boston nel 1981. I suoi Surrogate Objects for the Metropolitan (2011) sono repliche – prodotte con rifiuti, intonaco, cera e materiale organico – di alcuni reperti che il Metropolitan Museum di New York ha restituito all’Italia fra il 2006 e il 2010. La ricerca di Glynn affronta i temi della perdita e della copia intrecciati a quelli della distruzione e dell’appropriazione culturale. La sua originalissima riproduzione del Cratere di Eufronio, capolavoro della ceramica attica a figure rosse (VI secolo a.C.) caduto nel 1971 nella rete dei tombaroli in territorio etrusco, svela la fragilità di un oggetto sottratto al sonno dei secoli eppure intatto nella sua dimensione onirica.
Nel salutare l’ennesimo successo del Museo Egizio che, per volere del suo direttore Christian Greco, è divenuto una finestra aperta sul mondo, ci auguriamo che siano sempre più numerose le istituzioni museali disposte ad accostare archeologia e arte contemporanea non come eventi alla moda suscettibili di attirare un vasto pubblico ma come occasione per riflettere sulle dinamiche che – a differenti latitudini – scuotono le nostre società.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento