Il talento di Richard Starkey è sovvertire pronostici e superare aspettative. Ha iniziato a darne prova a sei anni, risvegliandosi dal lungo coma conseguente un’appendicite acuta che i medici avevano dato per fatale; lo esercita tuttora, sciorinando incisioni e concerti alla vigilia dell’ottantaquattresimo compleanno. Se il suo amico Paul continua a coniugarsi al present continuous, il vocabolario di Ringo predilige un presente remoto che lo porta a farsi cimelio vivente degli anni Sessanta, più hippie di quanto non fosse all’epoca. D’altra parte, l’anacronismo sembra non preoccupare né lui né il suo pubblico, altrettanto appagato dalla nostalgia dispensata in questo suo ennesimo progetto, Crooked Boy, già disponibile in digitale (le versioni fisiche sono in uscita il 31 maggio) e presentato ieri dall’ex Beatle in una breve conferenza stampa online. Occhiali scuri d’ordinanza, Ringo risponde dal suo piccolo studio domestico, che sembra misurare a spanne per la prima volta: «Quanto sarà, cinque metri quadri?». Dietro di lui una tastiera, due chitarre elettriche e una grossa stella psichedelica sulla parete. Da lì ha registrato le voci e la batteria (non inquadrata) per questi nuovi brani scritti e prodotti da Linda Perry, ex Four Non Blondes. «Avevamo già collaborato per un paio di pezzi [in Change The World e EP3] e a un certo punto mi ha proposto di produrre un intero EP. È stata una figura essenziale per questo disco: ha scritto, ha prodotto, ha messo insieme la band. A volte è un tantino autoritaria, ma va bene [ride]». L’autrice, in questo caso, fa quasi da ghost writer per una breve autobiografia in forma canzone, a partire dalla title track che rievoca i gravi problemi di salute infantili. «Ha reso perfettamente l’idea, con i suoi versi. Ne ho cambiato uno soltanto alla fine, quando al posto di “sickly boy” [“ragazzo cagionevole”] ho cantato “A teddy boy who found his own way”. Perché è quello che volevamo essere nella Liverpool del tempo».

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IN QUESTA SCRITTURA su committenza, solo due richieste esplicite da parte dell’interprete: «Innanzitutto voglio che in ogni canzone, anche quella più cupa, come February Skies, ci sia un elemento di positività, di pace e amore. E poi le ho chiesto di scrivere un pezzo rock e ha tirato fuori Gonna Need Someone». Il cui video, ricco di immagini d’epoca, contribuisce a rafforzare l’estetica anni Sessanta che imperversa nel presente remoto di Ringo. Un cronorifugio, lo definirebbe Gospodinov. Nel quale trova conforto la sua All Starr Band, definita da Steve Lukather la più grande cover band del mondo. «Ho iniziato a fine anni Ottanta, ruotando spesso musicisti. Joe Walsh, Dr. John, Billy Preston… chiunque chiamassi mi diceva sì. Ho dovuto chiudere la mia rubrica altrimenti avrei messo su un’orchestra!» E a riprova che anche il suo pubblico predilige il passato, Sir Richard assicura che non ci saranno nuovi brani nella scaletta del tour in partenza. «Sarebbe il modo migliore per vendere magliette! Basta dire: “Adesso un pezzo dal mio ultimo EP”, e tutti scappano via, al bagno o — se va bene — agli stand del merchandising. Ci piace suonare le hit dalle nostre rispettive band, le canzoni che tutti amiamo: ci pensi a un mio concerto senza With A Little Help From My Friend?».

MA ANCHE queste nuove tracce, scritte adattandosi al suo stile, sanno di vintage se non proprio di retromania. Così come il nuovo progetto in arrivo, un album country scritto e prodotto da T-Bone Burnett, la cui scelta stilistica lo riporta ai primi brani cantati con i Beatles (Honey Don’t, Act Naturally, What Goes On) e al suo stesso nome d’arte. «È un momento molto frenetico» dice compiaciuto; «Negli ultimi tre anni ho pubblicato cinque EP, anche perché era il modo più pratico per far musica durante il covid. Tempo fa ho incontrato T-Bone durante un reading di Olivia Harrison [la vedova di George] e mi ha proposto di fare un disco country. Dapprima doveva essere un altro EP, ma poi siamo arrivati a dieci brani. È una musica che ho amato sin da ragazzino, quando arrivava al porto di Liverpool con i marinai che tornavano dall’America. All’epoca non la passavano certo alla radio o alla BBC». Quasi obbligato il passaggio da Liverpool a McCartney, con cui ha lavorato di recente per Feeling The Sunlight. «È sempre difficilissimo!» esclama tra serio e faceto «Ma ogni volta che è nei paraggi lo chiamo e gli dico: prendi il basso e vieni qui!». Se Paul ha da poco pubblicato il volume fotografico 1964: Eyes Of The Storm, Ringo ha appena dedicato alla sua batteria Beats & Threads, scritto assieme a Gary Astridge e contenente oltre 200 immagini della sua storica Ludwig marchiata Beatles con “T” lunga. «Ho conosciuto tre signor Ludwig, nonno, padre e figlio. Ma la mia prima batteria era uno strumento da quattro soldi, prima che noleggiassi una Premier con 35 sterline prestatemi da mio nonno. Durante i primi giorni a Londra con i Beatles, siamo passati da un negozio di strumenti e ho visto quella meravigliosa Ludwig. Era una batteria più piccola del normale, e così grazie al mio sgabello alto mi si poteva vedere… Il proprietario mi ha chiesto: suoni in una band? [ride]»

Nella sua autonarrazione, non c’è cesura tra Ringo e il giovane Richard. Ottantaquattro anni da compiere a luglio, più hippie e più prolifico che mai, Ringo è ancora in scena, contro ogni pronostico. Nessuno si è mai aspettato da lui capolavori né rivoluzioni: sotto sotto, quello che continuiamo a cercare è un angolino nel suo cronorifugio. «Peace and Love».