Nel corpo del dispositivo
Intervista Una conversazione con Tsukamoto Shin’ya tratta dalla rivista «Fata Morgana» ora in uscita. Leonardo, la tecnologia, le armi. Ma tutto comincia con il cinema di Cronenberg
Intervista Una conversazione con Tsukamoto Shin’ya tratta dalla rivista «Fata Morgana» ora in uscita. Leonardo, la tecnologia, le armi. Ma tutto comincia con il cinema di Cronenberg
È in uscita a febbraio il n. 24 della rivista «Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni», diretta da Roberto De Gaetano e pubblicata da Pellegrini Editore. Il numero, dedicato al tema Dispositivo, si apre con una conversazione con il regista giapponese Tsukamoto Shin’ya, a cura di Bruno Roberti di cui pubblichiamo un estratto. Il volume comprende, tra gli altri, saggi di Thomas Elsaesser (Girando in tondo. Cavalli, caroselli e il metacinema del moto meccanico), Massimo Locatelli (I mille fiori blu: archeologia del dispositivo), Francesco Parisi (Corpi e dispositivi: una prospettiva cognitivista), Anton Giulio Mancino (Cinema e diritto: dispositivi incrociati), Federico Vitella (Il paradosso del 3D. La stereoscopia in Viaggio al centro della terra), Paolo Godani (OS), Massimo Donà (Dispositivo «cinema». Rivedendo Prénom Carmen).
Tu ami molto i disegni di anatomia e quelli delle macchine di Leonardo da Vinci, a cui ti sei ispirato. E poi hai raccontato di una tua visita al Museo della Specola di Firenze, quando ammirasti gli straordinari modelli anatomici barocchi di Clemente Susini e Gaetano Giulio Zumbo. Allora eri intento a preparare il tuo film «Vital» dove per l’appunto uno studente di medicina disseziona il cadavere della persona amata, e dove i disegni leonardeschi sono molto presenti. Ora, c’è un modo di definire i disegni di Leonardo, le cere anatomiche barocche ecc., e cioè «macchine anatomiche». Si tratta quindi di dispositivi della visione che sezionano il corpo. Per te il cinema è una macchina, un dispositivo, che mostrando l’interno, anatomizzando i corpi, può anche trasformarli?
Il protagonista di Vital è molto curioso di sapere qual è il processo con cui si è formato il mondo, vuole guardare dentro questo processo. Cerca una somiglianza tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra il microcosmo e il macrocosmo. C’è uno strumento ottico per questo: il microscopio, attraverso cui vediamo il mondo piccolo ingigantito, e questo piccolo mondo, ingrandito, somiglia al cosmo, alle galassie. La sua idea fissa è quella di scoprire, di rendere visibile questo mistero, e questo lo porta a interessarsi dell’anatomia: capire come, dentro al nostro corpo, si manifesta questo mistero. Ma resta un mistero: alla fine non capirà, rimane un tentativo, il tentativo di rendere visibile il sistema del mondo. Questo è il mio film, e forse questo è il cinema.
Il cinema sarebbe allora come un bisturi, uno strumento che penetra nel corpo, e nel corpo del mondo, lo esplora, ma con questo stesso «atto» del vedere, modifica e forse distrugge, vanifica, la stessa possibilità di mostrare il mistero della vita, e della possibilità della vita di darsi in visione.
Sì, è una metafora che mi piace: effettivamente avvicinandosi con la macchina da presa alla realtà, possiamo estrarne dalla profondità, l’invisibile… che però resta invisibile!
Oggi si discute molto della possibilità di vedere il cinema, i film, non più nella sala cinematografica, ma in una serie di altri canali di diffusione, punti di dislocazione della visione, microdispositivi (computer, telefonini) o macrodispositivi (facciate di palazzi ricoperte da maxischermi). In questo senso Tokyo è una metropoli esemplare, una città ottica: come se tutta la città, disseminata di schermi, si fosse trasformata in uno schermo, si potrebbe dire «autoptico» (del resto l’etimologia stessa di «autopsia« sembra richiamare questa possibilità). Che cosa pensi del fatto che il cinema non si trovi più nel suo luogo deputato e sia rilocato in luoghi diversi e frammentati?
Prima bisognava andare nella sala, certo, ma soprattutto bisognava essere al buio, bisognava spegnere la luce, altrimenti non si vedeva niente sullo schermo. Quella era una intimità che ci faceva battere il cuore. Invece oggi questa emozione, il battito di cuore che avevamo all’inizio della proiezione, non esiste più. Questo mi dispiace.
Si può dire che in questo senso il cinema è qualcosa di intimo, di nascosto, e che la sua collocazione vera è nel nostro corpo (tu hai parlato di cuore)? Entrare in una sala è come entrare nel proprio corpo? È come andare a letto, spegnere la luce e cominciare a sognare? C’è una fisicità endoscopica ed endogena del dispositivo cinematografico? La domanda «che cosa può il cinema?» riecheggia quella deleuziana «che cosa può un corpo»?
A proposito di questo rapporto tra corpo, intimità e cinema di cui parli, mi ricordo che quando ho avuto l’idea di girare Tetsuo volevo esprimere soprattutto una sorta di erotismo, quando toccavo il metallo sentivo una sensazione molto forte, fisica, qualcosa di particolarmente eccitante, feticistico. Pensavo fosse qualcosa di personale, ma, girando il film, esplorando questa sensibilità, mi sono accorto che questo rapporto tra uomo, materia, attrezzo, protesi artificiale, è qualcosa di basilare, di primigenio, ed è anche alla base dell’evoluzione e della conoscenza. Mi colpisce sempre il ricordo dell’inizio di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick: è un piccolo attrezzo che viene lanciato nel cosmo e si trasforma in una immensa astronave. Questa immagine è quella del destino dell’uomo: ci innamoriamo del prolungamento del nostro corpo, lo stacchiamo da noi, ne facciamo un oggetto, la proiezione di un nostro corpo, lo trasformiamo e ci trasformiamo. Questa è la tecnologia, alle origini c’è un rapporto intimo con il nostro corpo.
Non è un caso se questa pulsione amorosa si traduce in un’arma, le armi sono prolungamenti del corpo, e le amiamo come parti del nostro corpo. Ne possiamo fare oggetti d’amore oltre che di violenza. Possiamo amare un coltello per questo e usarlo per cucinare, per uccidere, per tagliare, ma anche come attrezzo, oggetto erotico: è la stessa cosa per il computer. C’è sempre un collegamento intimo, erotico.
Un erotismo della protesi e dell’oggetto… quello che dici mi fa pensare a un grande film di Ferreri: «Dillinger è morto», dove Piccoli si innamora di una pistola e ne fa un oggetto feticcio, colorato, di cui ama più la forma che la funzione. Allo strumento si sovrappone qualcosa. Come nei due Tetsuo al corpo si sovrappone un rivestimento macchinico, che però lo rende feticcio, lo trucca oltre che trasformarlo, lo decora ritualmente. Ma questa corazza, questo rivestimento, non viene dall’esterno, proviene dall’interno del corpo, attraverso un pathos della carne, uno spasmo, un’apertura dolorosa. Ne risulta un’ibridazione, un dispositivo ibridato uomo-macchina, tecnomorfo; tu gli dai nomi diversi nei due Tetsuo: Body Hammer, Iron Man. L’organico mescolato all’inorganico dà luogo a un dispositivo: è ancora un corpo, è ancora «un cinema»?
Tutto comincia con il cinema di Cronenberg: la parte metallica, la parte meccanica è qualcosa che si introduce dall’esterno per contaminare o modificare il corpo, salvo che per una parte, che è il cervello, che può modificare il corpo dall’interno. Eppure si produce, dopo Cronenberg, una visione che fonde la parte meccanica con quella organica, si sviluppa qualcosa d’altro. Dopo aver visto Videodrome mi sono reso conto di questo, ho cominciato a rispettarlo come un padre. E come ogni figlio dovevo proseguire sulla strada che lui mi indicava, non potevo tornare indietro, e nello stesso tempo dovevo in un certo senso tradirlo, portare alle estreme conseguenze quella visione, anche contro la sua visione stessa, la fusione tra organico e non organico doveva generare qualcosa di diverso.
C’è tutto un cinema che si inoltra nel corpo come dentro un dispositivo, così come esplora il dispositivo-cinema assimilandolo al corpo: tu hai nominato Kubrick e Cronenberg, io penso anche a David Lynch, soprattutto a un film come «Inland Empire». Si tratta in questi casi, come nel tuo, di una fusione tra interno ed esterno, tra esogeno ed endogeno. Un mostro dentro di noi e un dentro di noi che «si mostra», qualcosa che ci contamina dall’esterno ma che poi viene incorporato in modo invisibile o impossibile da mostrare. È l’aporia del cinema stesso come «mostrazione» (fin da Frankenstein come mostro elettrificato, macchina fatta di pezzi di corpo, grazie a una dissezione, una anatomia trasmutativa). In che consiste per te questo rapporto tra interiorità e impulsi esterni, spasmi artificiali? In questo senso il cinema è protesi, meccanismo esterno o insorgenza interiore, un meccanismo endogeno, introiettato, metabolizzato? In futuro potremo non aver bisogno della macchina da presa come protesi ma potremo filmare con il nostro corpo, muovendoci, in modo organico?
All’inizio del mio lavoro la tecnologia era un punto centrale, attirava il mio interesse, ma poi man mano che questa mia indagine andava avanti, andava oltre, ho cominciato a interessarmi a qualcosa di più interiore, di più intimo, che poi mi sono accorto aderiva, coincideva con il corpo umano. Se si vive a Tokyo si è circondati da apparati tecnologici, non ci si rende conto neanche più che intorno, da qualche parte, esiste la natura. Allora c’è bisogno di fermarsi, e di guardare, ma di guardare se stessi come un pezzo di natura. Vital è nato proprio da questa idea: che fermandosi e guardando dentro, nel nostro corpo come nella nostra natura, avendo la percezione del nostro proprio interno, si può arrivare forse a vedere qualcosa. Quanto più ci si inoltra dentro questo tunnel, quanto più si va in profondità, tanto più avviene qualcosa, cominciamo a vedere qualcosa: improvvisamente ci si rende conto di essere immersi in una natura che non si aveva mai visto, di cui non si poteva immaginare una visione. Questo diverso modo di vedere è ciò che ho voluto esplorare in Vital. Però questo è un tentativo, perché la macchina da presa resta un attrezzo, non so quanto possa andare oltre.
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