Visioni

Nel cocktail di «Roma», canzoni e politica nel Messico del 1970

Nel cocktail di «Roma», canzoni e politica nel Messico del 1970Una scena da Roma di Alfonso Cuaron

Musica Nel film di Alfonso Cuarón lo spazio sonoro della capitale, silenzi inclusi, viene ricostruito da Lynn Fainchtein. Una colonna sonora che si muove tra il pop dell’argentino Leo Dan ai divi come Javiér Solís e Juan Gabriel

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 24 febbraio 2019

Nel film Roma di Alfonso Cuarón – che con le sue dieci nomination è tra i favoriti nella corsa agli Oscar di questa notte a Los Angeles – lo spazio sonoro della capitale messicana, silenzi inclusi, viene ricostruito da Lynn Fainchtein, responsabile del disegno musicale della più fortunata cinematografia e serialità televisiva internazionale degli ultimi anni. Suo il compito di ricostruire il variopinto universo sonoro di quel che resta dell’antica Tenochtitlan, tra il 1970 e il 1971, gli anni in cui è ambientata la pellicola.

Sono gli anni, e i paradossi, del PRI – il Partido Revolucionario Institucional – al governo ininterrottamente dal 1930 al 2000 (e poi di nuovo tra il 2012 e il 2018 con l’ultimo effimero colpo di coda del presidente Enrique Peña Nieto che lo resuscitò per poi affossarlo definitivamente nelle elezioni politiche dello scorso luglio). Un partito fondato per porre fine alle lotte intestine tra caudillos e unificare le varie forze nate con la Rivoluzione del 1910. Un rompicapo fin dal nome (quell’ossimoro «rivoluzionario» e «istituzionale») che per più di settant’anni ha condotto le sorti di un paese tra passato e modernità, rivoluzione e reazione, in una neanche troppo originale miscela di riformismo e repressione. Un cocktail che convertì per molti anni il Messico in rifugio prediletto da tutti gli esiliati, rivoluzionari e condannati della terra. Se la riforma agraria e le politiche di difesa dell’istruzione pubblica, della sanità, fino alla nazionalizzazione dell’industria del petrolio trasformarono il paese nell’Ultima Thule di tanti sognatori, ben presto la sua classe dirigente finì per mostrare ben più solide radici nella tradizione antiliberale dell’ispanismo medievale, cattolico e coloniale, che nei seguaci di Rousseau. Paternalismo, presidenzialismo verticista, autoritarismo che non disdegna l’ausilio dei sempreverdi militari per garantire pace, ordine e status quo, per inibire ogni possibile via extraparlamentare alla mobilità sociale. Le Olimpiadi del 1968 e il Mondiale di Calcio del 1970 furono le due enormi operazioni di propaganda volute dal governo, con la colpevole complicità internazionale, che, sfuggite di mano, finirono per mostrare al mondo che il re, in realtà, era nudo. È questo il contesto in cui si muovono i protagonisti di Roma.

SULLA SCIA della Primavera di Praga e del Maggio francese nacque così il Movimento studentesco 1968. Si trattava di studenti provenienti in gran misura dalla UNAM e dal Politecnico della capitale che scioperavano in favore di un cambiamento democratico, del ripristino dell’autonomia universitaria violentemente interrotta, di maggiori libertà politiche e civili. Accusati da una violenta campagna denigratoria governativa di voler instaurare un regime sovversivo e comunista, le loro marce furono represse nel sangue. Circa quattrocento furono gli studenti e civili assassinati nella plaza de las Tres Culturas di Tlatelolco il 2 ottobre del 1968, appena dieci giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi. Stessa sorte toccò a più di cento di ragazzi tre anni dopo, con il bagno di sangue del 10 giugno 1971, passato alla storia come El Halconazo. Cuarón lo racconta attraverso una straziante ricostruzione della repressione da parte di paramilitari reclutati tra i quartieri più poveri della città, armati di bastoni di bambù, spade di kendo e manganelli di legno, a cambio di qualche peso per il disturbo.

A STRUGGENTE monito di quegli anni rimangono, indelebili, i dischi di Óscar Chávez (México 1968) e di Judith Reyes. Quest’ultima, portavoce del movimento contadino contro i latifondisti e militari, è l’autrice di opere imprescindibili come La otra versión de la historia, Aquí está el Che (1967) fino al fondamentale Cronología del Movimiento estudiantil (1968). Con quest’album, debitore della grande tradizione dei corridos della Rivoluzione, la Reyes girò mezzo paese, cantando in carceri, mercati, campagne e fabbriche, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa. I ribelli ne subirono tutte le conseguenze del caso. Intimidazioni, provocazioni, infiltrazioni nel movimento, repressione giuridica, processi sommari, incarceramenti, uso esteso di delazione, tortura, paramilitari, CIA, propaganda mediatica a ritmo di musica romantica e ballata tradizionale. L’effimero servito su un piatto d’argento.

IN QUESTO SENSO Roma è una perfetta occasione per conoscere la musica che suonava per le strade di Città del Messico tra il 1970 e il 1971. Quali erano le hit parade radiofoniche in voga nelle case? Lynn Fainchtein compie un ammirevole lavoro di cesello nel ricostruire lo spazio sonoro della classe media del Messico di allora. Una polarizzazione sociale che si riflette nell’universo sonoro dei suoi abitanti. Accantonata la canzone protesta per evidenti motivi di galateo, i protagonisti di Roma (dal nome del celebre quartiere di classe media a cui è dedicato il film) si muovono in un contesto sociale che ne determina i gusti e i consumi culturali. Tra le varie opzioni disponibili Cuarón sceglie il pop dell’argentino Leo Dan (Te he prometido), la spagnola Rocío Dúrcal (Más bonita que ninguna), Lupita D’Alessio in una gettonatissima Corazón gitano, cover de Il cuore è uno zingaro portato al successo da Nicola Di Bari, fino ai fragili e perfettamente prescindibili successi internazionali di Roger Whittaker (Mammy Blue), la band Christie (Yellow River) o Yvonne Elliman nei panni della Maria Maddalena cantando I don’t know how to love him tratta dal fortunato musical Jesus Christ Superstar. Immancabili i grandi divi come Javiér Solís (Sombras), Juan Gabriel e José José impegnati rispettivamente in cavalli di battaglia come No tengo dinero e La Nave del olvido. Restano invece fuori la tradizionale ranchera di Pedro Infante e José Alfredo Jiménez, le irriverenti canzoni di Tin Tan e poi ancora Álvaro Carrillo, Agustín Lara e Jorge Negrete. Non c’è spazio per tutti. Per questo non deve stupire l’assenza della salsa e del rock nacional. Troppo presto per la prima (i tempi non erano ancora maturi), troppo tardi per il secondo. Clamorosa, in questo senso, fu la censura governativa del musical Hair durante la tournee ad Acapulco, con immediata deportazione degli attori e produttori stranieri. Si sfiorò lo scandalo diplomatico. Ad ogni modo, per quanto riguarda il rock, fa eccezione Javier Bátiz (tra i principali pionieri del genere, maestro di Carlos Santana) con una cover in spagnolo di The House of the Rising Sun e La Revolución de Emiliano Zapata con Ciudad perdida.

MA QUALCOSA stava iniziando a cambiare. Lo spartiacque sarà il Festival di Avándaro dell’11 e 12 settembre 1971, passato alla storia come il «Woodstock messicano». Si trattò del maggior evento rock della storia del paese. Furono due giorni di rock psichedelico, amore libero, controcultura e droghe a volontà. Un evento originalmente concepito per cinquemila spettatori, ne vide arrivare quasi trecentomila in una sorta di catarsi sociale per esorcizzare la paura. Si trattò del trionfo de La Onda, un movimento di avanguardia all’insegna di ecologia, pacifismo, spiritualità e diritti umani creato dagli jiptecas (hippies messicani) insieme al sacerdote Enrique Marroquín. Puro underground in salsa messicana, sulla falsariga dei loro cugini statunitensi, che auspicava un cambio di governo in forma pacifica, in nome di una nuova morale contraria a pregiudizi e ai valori imposti dall’Occidente. Un richiamo alla libertà che avveniva paradossalmente proprio attraverso l’esaltazione del rock britannico e statunitense. La Coca-Cola finanziò la radiotrasmissione dell’evento su scala nazionale… onde evitare equivoci. Ad ogni modo la reazione del governo non si fece attendere. Si gridò al pubblico scandalo. Da allora, per diversi anni, si proibirono le grandi riunioni giovanili e si chiusero le porte del paese ai grandi gruppi di rock internazionali. Alle radio fu imposta la censura e il ritorno a generi più autoctoni e meno conflittivi come il folklore, la canzone melodica e la ballata degli anni ’50. Per sopravvivere la mitica band La Revolución de Emiliano Zapata finì per tradire il suo pubblico abbandonando il rock per dedicarsi a nuove e improbabili ballate neomelodiche in stile vintage. Fu la definitiva sconfitta del movimento hippie, un salto indietro nel tempo di vent’anni. Nuovi scenari si sarebbero aperti. Il mondo ormai andava da un’altra parte e nuovi anni stavano per arrivare. Anni di edonismo e postmoderno, di new age e pensiero debole, delle filosofie orientali un tanto al chilo, del mangiar sano e tornare alla natura, del Mercato possibilmente equo e solidale, del narcisismo di parrucchieri barbuti eco-compatibili a chilometro zero, anni di selfies e di democrazia a portata di click, della straordinaria capacità di sostenere cause il più lontano possibile, attraverso petizioni on-line e sottoscrizioni web, nell’ossessivo tentativo di lavare la coscienza senza sporcare troppo le mani.

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