Nel suo ultimo libro, Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi, pp. 129, euro 17,50), Adriana Cavarero prende alla lettera l’invito di Elena Ferrante di esplorare «con verità fino al fondo più buio» l’esperienza della maternità. Nell’indagare il «tremendo» del corpo materno che, nella sua accezione greca essenzialmente intraducibile del deinon, rimanda all’estraneità di ciò che è più familiare, all’attrazione di ciò che crea repulsione e spaesamento, e sganciandosi da una tradizione che ha celebrato iconicamente il legame «sacro» della Madonna con il bambino, Cavarero si sofferma sulla dimensione impensata del corpo materno e sul legame minuziosamente oscurato dalla tradizione tra madre e figlia.

RIATTRAVERSANDO le narrazioni letterarie di Elena Ferrante, Clarice Lispector, Annie Ernaux e interloquendo con quelle più filosofiche di Luce Irigaray e Simone de Beauvoir, Adriana Cavarero lavora sulla scissione che si produce nel nostro venire al mondo e su quella genealogia originaria che dà avvio alla catena infinita delle madri e lo fa guardando al versante animale della maternità – un versante più prossimo alla zoe che al bios – attingendo da quel misterioso contatto che il corpo generante instaura con il processo impersonale della materia vivente, da cui emerge la vita singolare e unica dei nascituri. Proprio il vissuto di tale scissione del corpo materno che si fa due in uno e che si apre a un’esperienza incommensurabile, che sfugge alle forme concettuali e argomentative della razionalità maschile, anche di quelle più audaci, rappresenta il passaggio verso quell’aspetto «tremendo» e «ripugnante» della dimensione infinita e pulsante della vita organica, di cui il corpo femminile, nella sua potenzialità, è partecipe. Indifferente alle misure umane che delimitano lo spazio di circoscrizione della soggettività, con i suoi attributi di autonomia, indipendenza e libertà, il corpo gravido delle donne è costretto, per natura, a inoltrarsi nell’«inumano», a farsi complice di quel lavorio impersonale della materia vivente che comporta la frammentazione della propria carne.
Interrogare l’esperienza del materno alla luce di questa scissione che coinvolge il corpo, l’assetto psichico e la dimensione spirituale, significa per Adriana Cavarero rimettere al centro quella «verità essenziale» che emerge da una logica corporea che la filosofia, in quanto scienza esclusiva di maschi, ha sempre rinnegato e celato, così come ha rinnegato il legame tra madre e figlia, un legame complesso, e già tormentato di suo, dal momento che il processo di identificazione, alla luce dell’immaginario sociale in cui siamo tutte e tutti immersi, ha comportato e comporta tuttora profondi conflitti e prese di distanze. Il far fronte a sentimenti contraddittori, che suscitano al contempo amore e disgusto davanti alla potenzialità del corpo generante femminile, significa per Cavarero affrontare quel nodo del tremendo che fa emergere tutta la portata di ciò che comporta il processo di singolarizzazione della materia.

OCCORRE DIRE che l’orrore, ma anche la paura, di questo «strano potere» – per riprendere la traduzione del deinon di Virginia Woolf citata nel libro –, risulta centrale nelle scrittrici con cui Cavarero si confronta, per sottolineare l’importanza di una reinterrogazione radicale dell’esperienza della maternità a partire dal vissuto concreto delle donne, come ancora a partire dal recupero e dal confronto con alcune antichissime narrazioni e raffigurazioni della potenza materna, che dischiudono una visione altra dello stare al mondo, di cui, ad esempio, l’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas è stata una finissima interprete. In più, riprendendo alcune iper-rappresentazioni del potere generativo delle madri nelle culture arcaiche, come quelle di Sheela-na-Gig e di Baubo, ciò che è messo in risalto da Cavarero, e che si pone ai limiti dell’esaltazione e del mostruoso, è la sproporzione dell’organo sessuale femminile associato al potere fertile e prolifico della physis, una sproporzione che rende simbolicamente conto di quell’eccesso che rappresenta la generosità, l’abbondanza della natura, insieme alla sua capacità metamorfica. Ogni capitolo del libro di Adriana Cavarero ha una sua pregnanza specifica, caratterizzata da quella chiarezza illuminante che solo una grandissima studiosa riesce ad avere. Il titolo richiama Le baccanti di Euripide che, complici di questa sovrabbondanza di vita e di godimento, offrono nutrimento a cuccioli di lupo. Rompendo i rigidi confini posti tra umano e animale, la mossa politica, filosofica e ontologica del libro di Cavarero, è un invito a ripensare l’origine come qualcosa di concreto, corporeo e naturale, per rimettere in gioco quella visione che invece di imporsi come dominante si fa complice del ciclo della generazione, rispettosa di quella misteriosa unità della carne che unisce tutti i viventi.

PENSARE ciò che non è stato mai pensato fino in fondo, significa allora ri-pensare il legame tra corpo materno e physis con occhi nuovi e anche disincantati e significa altresì ripensare lo statuto della soggettività a partire da ciò che sfugge al suo controllo, alla sua determinazione e alla sua volontà. Aderire alla sfera necessitante della materia è l’esperienza che la maternità dischiude e che nel suo valore conoscitivo apre a un modo differente di intendere la libertà e la trascendenza umana. La critica che Adriana Cavarero fa a Simone de Beauvoir è illuminante a tale proposito: a partire dall’appiattimento della potenza materna nel puro determinismo biologico, dall’identificazione destinale della donna con la madre, dall’imprigionamento nel ciclo oppressivo della vita che ha confinato le donne nella pura immanenza, de Beauvoir reitera secondo Cavarero il disprezzo di tale condizione necessitante per l’affermazione piena e totale della libertà femminile. Ragionando da filosofa esistenzialista e legata a un filone di pensiero ben preciso, ciò che nelle parole di Cavarero sfugge a de Beauvoir (ma anche, per certi versi, ad Hannah Arendt) è il fatto che la monotonia della ripetizione riproduttiva non è fine a se stessa ma produce differenziazione. L’idea di libertà e di trascendenza cui siamo legati è dentro una visione antropocentrica, che è il frutto di una posizione essenzialmente androcentrica che ha svilito in profondità la donna, la natura, la madre, la vita.

PER ADRIANA CAVARERO si tratta proprio di cambiare tale visione ed è quello che filosofe come Julia Kristeva e Luce Irigaray hanno provato a fare a partire da tutt’altro posizionamento, nel tentativo di dare voce e corpo alla differenza sessuale. Il breve intermezzo autobiografico posto da Cavarero subito dopo il capitolo dedicato alla trasformazione di Niobe in pietra e subito prima del capitolo dedicato alla maternità come destino biologico, ci fa capire le preoccupazioni di fondo della stessa Cavarero e il suo invito a interrogarci e metterci in questione soprattutto oggi, in un momento in cui respiriamo un clima censorio e dove una certa idea di inclusività rischia di oscurare un potenziale che ha un valore singolare e universale allo stesso tempo. Contestare la separazione tra regno della necessità e regno della libertà, recuperare la dimensione della zoe come parte integrante di ciò che noi stessi siamo, significa per Adriana Cavarero chiudere definitivamente con una visione superba, che tradizionalmente ha dato vita a tutte quelle opposizioni che hanno ristretto il nostro sguardo sulle cose e su noi stessi, quando si tratta oggi di andare in direzione di un pensiero ecologico radicale.

CAPIRE LA PORTATA del ragionamento di Cavarero significa capire il valore politico di una conoscenza viscerale, della carne, che ci insegna a sentirci come una parte della natura, significa ancora capire che la conoscenza esclusiva della maternità è inclusiva dell’umanità tutta e si offre a noi, perché ciascuno e ciascuna di noi conosce lo strappo, la lacerazione della propria provenienza nel venire al mondo, così come conosce la comunione di quel primo nutrimento, che è il vero e proprio «prodigio di una natura che offre generosamente le sue risorse».

* Il libro sarà presentato a Napoli il 15 aprile alle ore 17.30 presso l’Istituto Italiano per gli studi filosofici di Napoli.