A leggerle tutte d’un fiato, in successione fra loro, le poesie che compongono l’antologia di Renzo Paris appena uscita da Elliot – Poesie 1968 – 2022 (pp. 180, euro 17,50) – sembrano rappresentare perfino qualcosa di più di un «romanzo in versi», come le definisce l’autore stesso in una delle note che introducono ciascuna delle sezioni in cui è diviso il libro. L’antologia potrebbe essere letta in primo luogo proprio così, come un «romanzo in versi» appunto, o meglio ancora come un romanzo di formazione, un’autobiografia o il resoconto di una vita intera.

SCORRONO I DECENNI ma a non venire mai meno, a non cambiare mai, è la postura di Paris, la sua attitudine a tradurre in versi la propria vita, a farne materia poetica in sé, fissandone di volta in volta un fatto, un incontro, un gesto, un’emozione. Eppure è anche molto più di così, è anche molto più di questo. Sarà che la vita di Paris, nel corso di questi decenni, si è sempre svolta nel cuore dei più importanti ambienti culturali italiani, dei cui protagonisti fra l’altro Paris è stato spesso anche amico personale, oltre e dietro la scena pubblica (ad esempio di Pasolini, di Penna, di Moravia, di Dario Bellezza, di Elsa Morante); o sarà che Paris per primo ha fornito un costante contributo alla cultura di questi decenni, non solo come poeta ma anche come romanziere, saggista e traduttore; o sarà, ancora, la sua capacità di non ridurre mai il mondo a misura del proprio sé, di non chiudere mai il suo «io» dentro un angolo cieco ed esclusivo. Saranno l’una o l’altra di queste cose o tutte insieme, ciò che ne risulta è un libro al quale può essere riconosciuto anche un forte valore politico, al di là dei dati autobiografici e personali, o spesso perfino intimi: quasi il valore di un romanzo della nazione, potremmo dire, o di un romanzo di formazione collettiva. È come se in questi versi potessimo riconoscere chi eravamo prima e chi siamo adesso, e come lo siamo diventati: noi come singoli, nelle nostre dimensioni private, e noi come collettività, come Paese realizzato (o come «Paese mancato», per usare il titolo di un libro di Guido Crainz di vent’anni fa).

Da questo punto di vista le poesie di Paris sono precisissime quali testimonianze dei passaggi da un’epoca all’altra (e questo dovrebbe essere un poeta, innanzitutto, un testimone del proprio tempo): dagli anni in cui ancora esistevano le ideologie e quindi ancora si pensava e si parlava, al netto delle degenerazioni che le ideologie hanno provocato, in nome di ideali più larghi dell’Io che li esprimeva (e basterebbe leggere a questo riguardo una poesia come Prova incendio, tratta da «Il pornofono»); agli anni in cui il senso comunitario della vita cominciava a perdersi nei rivoli infiniti dell’individualismo, dell’egoismo, del narcisismo sempre più sfrenati.

È PROBABILE CHE PARIS, in un dato momento, abbia creduto che anche il tempo della poesia fosse destinato a finire, tanto più per chi come lui aveva vissuto la poesia, in quegli anni, soprattutto attraverso eventi pubblici e condivisi. Dev’essere successo, simbolicamente, quando è morto Pasolini, se è vero che il verso di una poesia contenuta in «Album di famiglia», e dedicata con tutta evidenza proprio a Pasolini, lo dichiara in modo esplicito: «È morta». Ma poi è quella medesima poesia, pochi versi più avanti, a dare atto di essere risorta come espressione di un «nuovo bisogno». E questo è successo anche a Paris, che di decennio in decennio ha sempre saputo conferire significati nuovi alla sua scrittura.
Alcuni elementi sono rimasti identici, nel tempo: un gusto dell’ironia mescolato alla malinconia, i riferimenti all’amicizia e all’amore, anche carnale, una certa giocosità. Così come identici sono sempre rimasti i riferimenti anche dichiarati ai suoi autori d’elezione (a cominciare da Catullo e da Apollinaire, forse più di chiunque altro). A mutare, di raccolta in raccolta, è via via la sostanza alla quale questi elementi danno forma: e sotto questo aspetto è già stato riconosciuto a Paris, ad esempio, il merito di essere stato fra i primi a portare nella poesia i grandi temi delle migrazioni, dei nuovi paesaggi sociali, delle nuove marginalità. Gli ultimi versi dell’antologia sono perfetti, nel loro carattere di riassunto omnicomprensivo: «Non ho fatto altro che rincorrere/ la vita immaginandola, stravolgendola,/ per ricomporla nell’ultimo scongiuro».