«I gufi non sono quello che sembrano». Se la citazione lynchiana ben si addice ai due rapaci notturni in copertina, ancor più illusori sono i veli che avvolgono la genesi, i contenuti e i significati stessi di questi Seven Psalms usciti per Owl Records/Legacy. Sette salmi cuciti in un’unica traccia, con una coesione da far invidia ai capostipiti biblici del genere. Un patto di attenzione con l’ascoltatore e un primo invito a rimuovere i veli, partendo dall’apparentemente incontestabile natura di testamento olografo (tanto per l’artista quanto per l’uomo). Sin dalle primissime reazioni, infatti, l’ultimo album di Paul Simon è stato accostato alle opere finali di Leonard Cohen e David Bowie. C’è da toccar ferro, per l’ottantunenne songwriter, che per quanto ci è dato sapere godrebbe di buona salute (tanto come artista quanto come uomo).Allegorie, dubbi, ironia e grande musica per un autore ancora brillante

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Paul Simon a Hyde ParkCHE POI, non si era già parlato di testamento per Stranger To Stranger (2016), annunciato come tale da un autore ormai alieno allo showbusiness? Ma il Simon di oggi canta «My hand’s steady, my mind is still clear» e dà ancora del tu alla canzone, libero dalle formalità di strofe e refrain. Chiara è anche la voce, che quando si arrochisce ci sorprende con registri che si direbbero di un Peter Gabriel. Agile è la mano: come chitarrista sembra non esser mai stato così in forma nel sostenere il canto con contrappunti acustici a un passo dal microfono e dal nostro orecchio.
In simili condizioni non vi è celibato possibile tra testo e musica. E se la prima lettura fa sì pensare a congedi e conversioni, versi come «I have my reasons to doubt» sono ben più che un indizio. Ancor meno certezze offre la musica, dileguando i confini tonali — con improvvise modulazioni alla parallela maggiore, e altrettanto fulminei dietro front — e scavalcandoli a pie’ pari nel blues sarcastico di In My Personal Opinion.

ALTRI VELI avviluppano la genesi dell’opera rinnovando la narrativa dei sogni ispiratori, tanto da offuscare il lungo lavoro antelucano di scrittura, composizione e produzione raccontato dallo stesso Paul. Gli strati più spessi, tuttavia, sono quelli che nascondono l’essenza di una fede tutta personale. C’è chi è pronto a cogliere in Seven Psalms un epilogo ecumenico in cui il Paul Simon agnostico ritroverebbe quello ebraico per aprirsi al cristianesimo. Eppure egli non pone più Questions For The Angels (come nel 2011 in So Beautiful Or So What): le sue domande sono profondamente umane, anche quando riaprono l’atavica questione dell’aldilà, la «grande migrazione» a cui si riferisce in apertura e da cui sembrano spariti i moduli burocratici e le file all’ingresso immaginate in The Afterlife (sempre nel 2011).

ALLE DOMANDE non seguono risposte, com’è proprio dell’arte: «I’m not a doctor or a preacher / I’ve no particular guiding star» chiosa lui. Umane sono anche le parole chiave del discorso, forgiveness, path, time, waters, love. Lo è finanche Lord, che diventa «my engineer, my record producer», in una sorta di remake del salmo più celebre: «Il Signore è il mio pastore…».
Quello di Paul Simon, in fondo, è un memento mori senza vanitas ma non privo di humour; contestualizzato all’interno della sua opera non può non suggerirci una buona dose di ironia persino in quei rintocchi di campana e nel lapalissiano «amen» armonizzato dalla voce di Edie Brickell, moglie del cantautore. Che se volesse davvero dirci addio, ci giurerei, userebbe metafore meno prevedibili.