ExtraTerrestre

Nei panni degli sfruttati

Intervista Le lotte con la comunità indiana, i travestimenti per lavorare nei campi come un immigrato, le agromafie raccontate da vicino. Un incontro con il sociologo Marco Omizzolo, autore di «Sotto padrone»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 13 febbraio 2020

Trovare sugli scaffali del supermercato una salsa di pomodoro a meno di 50 centesimi sappiamo che significa, di base, due cose: che il lavoro nei campi è sottopagato, o che la qualità del prodotto è scarsissima. Più spesso, significa entrambe le cose. Ciò che invece non sappiamo è cosa significhi esattamente vivere ogni giorno da bracciante sfruttato, una condizione che conoscono soltanto le persone che la vivono sulla loro pelle.

Per cercare di comprenderla Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore Eurispes, si è voluto calare nei panni dei braccianti fingendosi per tre mesi un lavoratore sikh nelle campagne di Latina. Lo racconta nel volume Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, pubblicato lo scorso novembre da Fondazione Feltrinelli. Una scelta coraggiosa per ricostruire tutta l’intricata filiera dello sfruttamento e disvelare gli intrecci tra migrazioni, agromafie e caporalato. Un viaggio che lo ha portato fino in India, sulle tracce dei trafficanti. E che gli ha consentito, nell’Agro Pontino, di creare le condizioni per l’«autodeterminazione ed emancipazione degli sfruttati», culminate nello sciopero del 18 aprile 2016, cui parteciparono 4000 braccianti.

Cosa è cambiato, a distanza di 12 anni, da quando ti sei avvicinato alla comunità indiana dell’Agro Pontino?

Oggi il sistema di sfruttamento e agromafioso è mutato. Ciò è dovuto a vari fattori. In primis alle grandi mobilitazioni che, come cooperativa In Migrazione, abbiamo messo in campo con la comunità indiana del Lazio e la Flai Cgil in provincia di Latina. L’unione delle migliori competenze scientifiche, insieme al miglior sindacalismo di strada e ad un rinnovato protagonismo della comunità indiana pontina ha permesso di organizzare la prima e maggiore mobilitazione di braccianti indiani d’Italia. Il 18 aprile del 2016 sono arrivati a Latina oltre 4mila lavoratori e lavoratrici indiani, e in seguito a quell’evento storico abbiamo presentato oltre 150 denunce e vertenze, con in alcuni casi la costituzione di parte civile nei relativi processi da parte degli stessi lavoratori. Tra i vari risultati quella mobilitazione meravigliosa ha accelerato l’approvazione della nuova legge contro lo sfruttamento lavorativo (legge 199/2016), che ha positivamente contribuito al riconoscimento di diritti fondamentali. Nel contempo le agromafie si sono riorganizzate, in alcuni casi allontanando i braccianti indiani considerati ribelli o inaffidabili e sostituendoli con richiedenti asilo di origine africana reclutati in centri di prima accoglienza pontini malamente gestiti. Questa associazione drammatica tra le forme peggiori della prima accoglienza e lo sfruttamento lavorativo tenta di sostituire gli indiani consapevoli con altri lavoratori migranti inconsapevoli e più ricattabili. Ciò significa che insieme ai molti passi in avanti, registriamo anche alcune evoluzioni del sistema criminale.

A un certo punto hai deciso di infiltrarti come bracciante, indossando (letteralmente) i panni dei lavoratori indiani. Quali sono state le tue maggiori difficoltà?

Prima di calarmi in questa dimensione ho vissuto un anno e mezzo con la comunità indiana di Sabaudia. Ho vissuto nel loro tempio, in camerate con dodici braccianti con una sola luce e una doccia. Ho passato serate intere ad ascoltare le loro storie di vita e di sfruttamento. Questo mi ha permesso di vivere un’esperienza radicale di immersione nel fenomeno. Ovviamente ho sofferto la fatica di quella esperienza quotidiana: oltre dodici ore di lavoro al giorno per tutti i giorni del mese nei campi aperti o in serra, con due sole pause da dieci minuti; la violenza quotidiana, verbale e non solo, che colpiva tutti i lavoratori per assoggettarli/ci e farci accettare le retribuzioni e le condizioni di lavoro imposte. Tutto questo mi ha fatto decidere per un impegno che non poteva più essere solo scientifico, inducendomi ad agire con i lavoratori per un cambiamento radicale di quel sistema criminale. Ciò ha significato anche affrontare intimidazioni, aggressioni e forme varie di pressione che però abbiamo respinto e denunciato.

Sei perciò arrivato alla mobilitazione attraverso la creazione di spazi per l’autodeterminazione dei lavoratori sfruttati. Quali sono le condizioni che favoriscono un processo di questo tipo?

Io credo che si debba recuperare un rapporto diretto, orizzontale, con chi vive il disagio e lo sfruttamento. Se non costruiamo una coincidenza di esistenze, di impegni e di visioni, se non indossiamo con cognizione di causa le tute sporche dei braccianti e degli operai precari e sfruttati, non riusciremo mai a definire un rapporto di condivisione e co-partecipazione per una reale emancipazione. Ciò significa rispolverare e aggiornare pratiche fondamentali di lotta e di conflitto. Con il padrone non si scende a patti. Si può parlare e discutere con gli imprenditori ma non coi padroni che invece vanno denunciati e contrastati.

L’Agro Pontino è sicuramente uno dei territori in cui il caporalato e le agromafie agiscono nelle forme più aggressive. Ma non è l’unico, in Italia. Quanto e come si estendono le agromafie?

Lo sfruttamento lavorativo, e all’interno di questo le agromafie e il caporalato, è un fenomeno complesso, organizzato, resiliente e sistemico. Esso nasce dai processi di deregolamentazione del mercato del lavoro prodotti nel corso degli ultimi trent’anni in Italia e in Europa, dalla subordinazione che questo Paese ha sviluppato nei confronti della globalizzazione economica neoliberista, di una visione mercantilista dei diritti che ha inteso il lavoro come variabile dipendente del profitto e l’ambiente come terreno dal quale estrarre potere, rappresentanza e denaro. Le agromafie sono diffuse lungo tutta la filiera agricola e non solo nell’attività produttiva di base. Secondo l’ultimo rapporto Eurispes, sviluppano un business annuale di circa 25 miliardi di euro, ossia quasi una finanziaria di un Paese come l’Italia. Lo sfruttamento e il caporalato li troviamo ormai spalmati in tutto il territorio nazionale. Dal Piemonte alla Lombardia, dal Veneto all’Emilia Romagna e alla Toscana, non c’è regione che, come per le mafie, possa considerarsi immune dal fenomeno. E lo troviamo anche in altri paesi europei.

La vulnerabilità del lavoratore straniero, così esposto a abusi e ricatti, è legata anche alla inadeguatezza delle leggi in materia di lavoro e immigrazione. Quali iniziative politiche bisognerebbe intraprendere per cambiare questo quadro?

Una riforma del mercato del lavoro a tutela dei diritti di tutti i lavoratori senza alcuna distinzione, che permetta di eradicare dal sistema economico e politico padroni, padrini e sfruttatori vari. A questo aggiungerei una riforma degli ordini professionali perché i loro iscritti rispondano delle loro connivenze coi sistemi agromafiosi. Senza questi colletti bianchi, i padroni sarebbero poco più che semplici ladri di polli. Occorre dichiarare illegali le doppie aste al massimo ribasso, riformare protocolli e forme organizzative del biologico, rendere trasparenti i grandi mercati ortofrutticoli e la logistica, riformare le politiche agricole europee e regionali perché quei soldi vadano agli imprenditori più capaci, onesti e virtuosi. È poi fondamentale una tutela effettiva e totale di quei lavoratori e lavoratrici, stranieri e italiani, che denunciano i protagonisti di questo sistema criminale e che portano avanti con coraggio i processi nei tribunali. Penso anche a una riforma del sistema di accoglienza che, come afferma Amnesty International Italia nel recente dossier I sommersi dell’accoglienza, abroghi i due decreti Salvini e i memorandum e protocolli sottoscritti con regimi dittatoriali (Libia, Eritrea e non solo), stabilendo nel contempo vie sicure di ingresso per profughi e richiedenti asilo e il ripristino del sistema Sprar. Penso infine a un’azione più energica e lungimirante affinché il migrante non venga inteso solo come un utile invasore o un utile produttore di profitto per il nostro sistema economico, ma come un soggetto titolare di diritti inviolabili, riconosciuti innanzitutto come persona.

Cosa possono fare le persone comuni, nel quotidiano, per contribuire a sconfiggere questo sistema?

Innanzitutto informarsi. Disobbedire le indicazioni, anche normative, di chi definisce il migrante un pericolo, un portatore di emergenze, una persona inferiore. Accompagnare non solo i processi economici ma anche quelli politici volti a riconoscere i diritti umani e dei lavoratori come centrali. Questo significa ricordarsi del caporalato e dello sfruttamento lavorativo non solo quando si va al supermercato ma anche quando si va a votare. Associare, questo è fondamentale, il tema dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani con quelli ambientali. Dobbiamo tenere insieme questa complessità perché se adeguatamente coniugata essa presenta una carica rivoluzionaria che può riformare il Paese e il suo sistema economico, sociale e politico.

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