Visioni

Nei labirinti di Mundruczó, storie di vita e morte senza tempo

Nei labirinti di Mundruczó, storie di vita e morte senza tempoUna scena da «Pieces of a woman» – foto di Piero Tauro

A teatro «Pieces of a woman», l’ultima creazione del geniale regista ungherese a RomaEuropafestival

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 25 settembre 2021

Labirinti di tempo. Vengono in mente i «sentieri che si biforcano» di cui parlava un folgorante racconto di Borges. Siamo invece al teatro Argentina dove RomaEuropa festival ha portato l’ultima creazione di Mundruczó Kornél, geniale regista ungherese capace di cambiare ogni volta lo stile della lotta, per dirla con il vecchio Brecht. C’era stata prima la trilogia allestita con la sua compagnia, iniziata con il disturbante Frankenstein-Project e conclusa dallo sconvolgente Disgrace che ribaltava il romanzo di J.M. Coetzee, e in mezzo a far da tratto d’unione quell’altro poco pacificante Hard to be a god visto in estate a Venezia. E in parallelo i suoi film, la cruda parabola di Delta o la spiazzante sinfonia di White God, piccolo dramma familiare che vira d’improvviso verso la tragedia di vendetta elisabettiana.
Pieces of a woman, lo spettacolo presentato dal polacco TR Warszawa, si innesta piuttosto sulla stessa linea del più recente Imitation of life, la rinuncia apparente alla violenza e lo spostamento su vicende familiari ma in realtà permeate dalle contraddizioni e i conflitti aperti nella società. Non casualmente c’è dietro in entrambi i casi la mano di Kata Wéber, sceneggiatrice e drammaturga e all’occorrenza anche attrice sulla scena di Mundruczó, oltre che partner nella vita del regista. Qui si gioca sui conflitti determinati da un evento drammatico, la morte della figlia che la madre ha voluto ostinatamente partorire in casa.

DALLA PIÈCE di Kata Wéber, su cui si allunga anche qualche riverbero autobiografico, Mundruczó ha poi tratto un film di successo, presentato l’anno scorso a Venezia. E indimenticabile, per chi l’ha visto, è la lunga sequenza iniziale del travagliato parto, più di venti minuti con la camera incollata alla donna mentre monta l’angoscia della situazione. Parte da questo concitato momento anche lo spettacolo teatrale, che vediamo filtrato dall’occhio di una videocamera, tutto si svolge al di là di una parete che è anche lo schermo su cui si proiettano le immagini. Fino all’esplodere in sala di sirene e lampeggianti, correlativo dell’inutile arrivo di un’autoambulanza. Dimenticare il film, dimenticare la sua bellissima e premiatissima protagonista Vanessa Kirby – è tuttavia il primo imperativo che lo spettacolo impone allo spettatore. Basta un’ambientazione diversa e siamo precipitati in un’altra realtà. Là era l’east coast americana, con l’inevitabile happy end; qui la Polonia dagli incrollabili valori cattolici.

LO SCHERMO si solleva, al di là si rivela lo spaccato di un’altra casa dove un gruppo di operai sta eseguendo una sorta di trasloco, mobili da disporre, piante da spostare. Sei mesi dopo, dice la didascalia proiettata. L’anziana padrona di casa intanto è alle prese con un referto che le lascia poche speranze, sta perdendo velocemente la memoria. E infatti non ricorda dove ha messo le chiavi, si è dimenticata di mettere in forno l’anatra preparata per il pranzo… Perché si prepara una riunione di famiglia, che è un po’ anche un involontario processo alla figlia Maja, la donna che ha perso la bambina e però non rispetta le convenzioni del dolore pubblico. Potrebbe essere T.S. Eliot, la casa depositaria dei riti sociali che ne garantiscono l’ordine, i segreti gelosamente difesi, i piccoli orrori quotidiani. Arriva la disinibita cugina avvocato, che ha in mente di avviare una causa per avere un indennizzo. E la sorella che teme per la carriera politica cui aspira, dalla parte della vera Polonia. Ed è un conflitto duro quello che si produce fra le quattro donne, fra momenti di tenerezza e l’emergere di passati rancori e ferite che si riaprono – giacché i due uomini presenti, i mariti delle sorelle vanamente arroganti, sono figure marginali. Siamo riusciti a parlarne senza piangere, dice lei. Ma è un dolore che non si cura, non passa col tempo.
Fino al culmine emotivo che si produce quando la protagonista, rimasta sola, si infila sotto la doccia dialogando con un pupazzetto come faceva da bambina. Ricordi ancora che occhi aveva tua figlia? lo sente chiedere. Poi tutto si confonde. La scena si oscura e si precipita nell’incubo. Dal lato opposto della scena avanza carponi un bambolotto dalla grossa testa luminosa… Finisce che si ritrovano tutte insieme a cantare, come in altri tempi. Felicità è un bicchiere di vino con un panino la felicità. Il vecchio brano di Al Bano e Romina che già in precedenza aveva fatto ballare le due sorelle.

O FORSE NO. Forse è proprio a raffronto del film successivo che il lavoro teatrale svela una delle sue chiavi. Storie diverse si dipanano da un medesimo punto di partenza, nel giardino dei sentieri che si biforcano qual era il mondo per lo scrittore argentino. E chiamano in causa la responsabilità che sta dietro a ogni scelta. Dietro la maschera della commozione, Mundruczó lascia trapelare qualcosa di epico, in fondo davvero brechtiano. Nella casa ormai vuota e buia, la madre dà fuoco al referto che non ha voluto mostrare alle figlie. Labirinti di tempo.

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