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Yvan Sagnet: «Nei campi come schiavi»

Yvan Sagnet: «Nei campi come schiavi»

Intervista Yvan Sagnet, nel 2011 guidò la rivolta dei braccianti africani

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 7 agosto 2015

Nell’agosto del 2011 guidò la rivolta dei braccianti agricoli africani nelle campagne di Nardò, in provincia di Lecce, contro lo schiavismo del terzo millennio. Oggi, quattro anni dopo quelle storiche giornate nel campo di pomodori della masseria Boncuri, Yvan Sagnet vive in Puglia, in provincia di Foggia, ed è coordinatore regionale del Dipartimento Immigrazione della Flai Cgil Puglia.

Yvan, oggi come ieri non si arresta la piaga delle morti estive nelle campagne pugliesi: sembra che dalla rivolta del 2011 nulla sia effettivamente cambiato.
Sì, purtroppo è così: troppo poco è cambiato da allora. E le colpe sono ancora una volta delle istituzioni e della classe imprenditoriale. Le prime non controllano a sufficienza, appena il 50% delle aziende lo sono; la seconda continua a disattendere le regole sul lavoro e il rispetto delle norme contrattuali.

Qual è l’attuale condizione dei braccianti agricoli nelle campagne pugliesi?
Secondo la legge dovrebbero lavorare 6 ore e trenta minuti, al massimo 7: invece siamo nell’ordine delle 12-14 ore di lavoro giornaliere. Questo perché la paga non è oraria come dovrebbe essere, ma a cottimo: più lavori e più vieni pagato. Per un cassone di pomodori che pesa 3 quintali, vieni retribuito con 3,50 euro: ognuno tenta quindi di riempire quanti più cassoni possibili. Ma con queste condizioni climatiche proibitive è consequenziale il sentirsi male e, come accaduto nelle ultime settimane, che il cuore di qualcuno non regga e ceda di schianto.

La Puglia è da sempre una delle regioni con più lavoratori giornalieri sfruttati dai caporali: un sistema perverso che pare nessuno riesca o voglia interrompere e regolarizzare.
Il lavoro nero è diffusissimo in tutta la regione. La provincia di Foggia è sicuramente quella che presenta la situazione più critica. Secondo i dati Inps del 2014, ci sono 46mila addetti alla raccolta, di cui poco meno del 50% sono stranieri: di questi poco più della metà sono bulgari e rumeni, il resto africani. La maggior parte sono senza contratto: secondo i nostri dati ci sono almeno altri 10mila invisibili. Il sistema del caporalato non è cambiato: quelli stranieri sfruttano i lavoratori stranieri, quelli italiani sfruttano gli italiani. Svolgono la così detta “intermediazione della manodopera”: a loro si rivolgono i proprietari terrieri italiani (singoli, grandi marchi e malavita) per la “raccolta” dei lavoratori.

Eppure c’è una legge regionale approvata nel luglio 2014 e una convenzione approvata nel 2013: possibile non si possa fare di più?
I controlli in proporzione alla quantità di aziende agricole e terreni, sono pressoché assenti. Bisogna però dire che rispetto al passato sono aumentati: soltanto nel 2014 sono stati 2.800 e nel 50% dei casi sono state scoperte illegalità e sfruttamento dei lavoratori. La Direzione regionale del Lavoro ha pochi ispettori: sono appena 99. Speriamo la nuova giunta regionale possa fare qualcosa in tal senso.

Inoltre, appaiono superati anche i famosi Centri per l’impiego: la loro funzione è stata del tutto bypassata.
Oggi l’imprenditore chiama direttamente il caporale, non cerca più il lavoratore nei centri preposti: per questo vanno ristrutturati e rivista la loro funzione. Addirittura i braccianti oggi vengono presi nei pressi dei centri di accoglienza: i caporali sanno che hanno bisogno di lavorare in attesa di ricevere i permessi. E’ un sistema oliato che impedisce ai lavoratori di conoscere anche i diritti più elementari.

E poi c’è il mancato controllo su tutta la filiera che va dal piccolo terreno allo scaffale dei supermercati: spesso hai parlato di “pomodoro e uva di sangue”, accusando e promuovendo campagne di boicottaggio contro le grandi marche.
C’è bisogno di una certificazione d’impresa controllata, che impedisca la vendita di prodotti ricavati dallo sfruttamento del lavoro.
Tre prodotti su cinque che finiscono sulle nostre tavole hanno origine dalla schiavitù. Mohamed è morto, lavorava per un imprenditore: noi vogliamo sapere dove sono finiti quei pomodori che oggi sanno di morte e di sangue.

Il problema, dunque, è ancora culturale: va cambiata la mentalità del datore di lavoro, del controllore e del consumatore.
Nel 2015 il modo di fare impresa in Italia non è cambiato: non si può mettere al centro sempre e soltanto il profitto, il denaro, tagliando sul costo del lavoro. Si può e si deve fare impresa e stare nel mercato in un altro modo. Rispettando le leggi e i diritti di ogni singolo lavoratore.

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