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Negoziati Israele-Libano, al centro il gas non un trattato di pace

Negoziati Israele-Libano, al centro il gas non un trattato di paceIl confine tra Libano e Israele – Wikimedia Commons

Mediterraneo orientale Non si tratta di un nuovo capitolo dell'Accordo di Abramo. I due paesi dovrebbero avviare colloqui per definire i confini marittimi e decidere lo sfruttamento dei rispettivi giacimenti di gas

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 7 ottobre 2020
Michele Giorgio GERUSALEMME

Dovrebbero cominciare a metà mese i colloqui per la definizione dei confini marittimi tra Israele e Libano che vedranno allo stesso tavolo i delegati dei due paesi assieme ai mediatori statunitensi e delle Nazioni Unite. La sede degli incontri sarà nei locali della base militare dell’Unifil a Ras Naqura. La certezza che i negoziati prendano il via non c’è ancora. Israele e Libano sono in stato di guerra, non hanno rapporti e le differenze sulla composizione delle delegazioni e altri aspetti «politici» restano ampie. Ma alla fine si faranno perché a Ras Naqura saranno in ballo i miliardi di dollari che Tel Aviv e Beirut potrebbero incassare dallo sfruttamento di ricchi giacimenti sottomarini di gas se riusciranno a trovare un’intesa su un’area di 860 chilometri quadrati, nel cosiddetto Blocco 9.

 

Non siamo di fronte al primo passo di un futuro accordo diplomatico tra Israele e Libano come banalmente lasciavano intendere qualche giorno fa i resoconti di media entusiasti dell’Accordo di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati e Bahrain. Parliamo di gas nel Mediterraneo orientale, la corsa al nuovo oro che coinvolge Turchia, Grecia, Cipro, Egitto, oltre a Israele e Libano e che potrebbe sfociare in una guerra se le cose dovessero mettersi male. Il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha precisato più volte che i colloqui a Ras Naqura sono estranei alla normalizzazione mediata dall’Amministrazione Trump. Ed è stato esplicito sulle finalità del negoziato sottolineando che «se la demarcazione avrà successo potremo pagare i nostri debiti».

 

Giorni fa il quotidiano di Beirut Al Akhbar riferiva che l’influente movimento sciita libanese Hezbollah si oppone fermamente alla partecipazione ai negoziati di esponenti del governo israeliano, per impedire che sia dato un carattere politico alla trattativa. L’esecutivo guidato da Netanyahu infatti vorrebbe a capo della delegazione israeliana il ministro dell’energia Yuval Steinitz. E il ministro degli esteri Gabi Ashkenazi ritiene che «il successo dei colloqui contribuirà in modo significativo alla stabilità della regione». Allo stesso tempo Hezbollah deve favorire l’avvio della trattativa che riguarda lo sfruttamento di una potenziale fonte di ricchezza per il paese dei cedri alle prese con una devastante crisi economica e finanziaria (la peggiore degli ultimi 30 anni) che ha fatto precipitare nella povertà larghi settori della popolazione libanese. Conta anche l’accusa mossa da una parte della popolazione libanese al movimento sciita di badare più agli interessi dei suoi alleati iraniani che a quelli del proprio paese. Accusa che Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, respinge con forza. Il Libano ha già assegnato le licenze esplorative nel Blocco 9 a un consorzio di aziende che include la francese Total, la italiana Eni e la russa Novatek. Il governo Netanyahu ha coinvolto le compagnie Delek Drilling e Noble Energy, già partner nello sfruttamento di giacimenti israeliani. Nessuno dei due paesi è attivo nella zona contesa che, affermano i libanesi, sarà delimitata sulla base «del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) concordato nel 1996» e non in altri modi.

 

Sullo sfondo c’è il basso profilo sugli ultimi sviluppi regionali che la Siria ha adottato di recente. Oltre a non aver espresso una posizione a proposito della trattativa sui confini marittimi tra Israele e Libano, Damasco ha criticato a bassa voce la normalizzazione di Emirati e Bahrain con i «nemici israeliani». Dopo le forti tensioni degli anni passati per l’appoggio offerto da Abu Dhabi a jihadisti e islamisti radicali schierati contro il presidente Bashar Assad, la leadership siriana dalla fine del 2018 vanta buone relazioni con gli Emirati i quali hanno riaperto l’ambasciata a Damasco sfidando la rivale Turchia. La Siria inoltre mantiene buoni rapporti con l’Egitto, alleato degli Emirati, e appoggia il generale libico Khalifa Haftar contro il governo di Tripoli alleato di Ankara. Gli Emirati, si dice, saranno protagonisti della ricostruzione in Siria se e quando gli Stati uniti cesseranno di ostacolarla.

 

 

 

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