Peccato che l’Italia ignori da sempre uno dei maggiori diaristi dell’ultimo secolo, il compositore Ned Rorem, scomparso il 18 novembre scorso a New York, quasi centenario. Il suo The Nantucket Diary, iniziato proprio mezzo secolo fa resta uno dei libri del genere più venduti al mondo, anche se la «mania» di prendere appunti risale a lui tredicenne curioso di tutto, dai viaggi alla musica, dalle arti alle parole. E con lui se ne n’è andato un altro protagonista della musica classica americana; nato il 23 ottobre 1923 a Richmond (Indiana), conosciuto internazionalmente solo nel 2003 e poi nel 2013 con due dischi Naxos rispettivamente sull’opera pianistica e sinfonica. Con Rorem, scompare anche uno degli ultimi autori di un filone vicino a esperienze autenticamente (e ostinatamente) classiciste, a garanzia di una continuità nel linguaggio tonale che viceversa gli altri esponenti di musica colta statunitense tentano via via di combattere, aggirare, unire a gerghi popolari, dal country al jazz, dall’etnico al rock, il tutto con diversi livelli di eclettismo stilistico presenti talvolta all’interno del corpus di ogni singolo autore.
IL «LIED»
Rorem va anzitutto condiviso attraverso le canzoni, a partire dall’album Songs of Red Rorem registrato, un quarto di secolo fa, dalla soprano Susan Graham con Malcolm Martineau al pianoforte: in apparenza genere in via di estinzione, incalzato dal pop e dal melodramma, il «lied» (o song in inglese, che però vuol dire anche canzonetta), oltre ad avere negli Stati Uniti illustri predecessori come Ives e Copland, vede in Rorem il migliore al mondo in grado di catturare la forma di una lirica (francese, britannica e soprattutto americana) attraverso una linea melodica cantabilissima, spesso contrappuntata da una partitura d’accompagnamento per pianoforte tanto efficace quanto virtuosa; del resto lo stesso autore confessa che «la mia relazione con la scrittura di song, lunga tutta una vita, nasce dall’amore non per il canto ma per la poesia».
Ma riconsiderando tutte le partiture di Rorem viene da chiedersi quale e come sia la vera musica classica a stelle-e-strisce, sulla scia di quanto afferma il noto studioso Gianni Morelenbaum Gualberto, che lo indica anzitutto quale «autore, fra tanto altro, di alcuni fra le più squisite art-song della liederistica contemporanea. Dal linguaggio in cui elementi tonali e non tonali concorrevano a delineare una vena elegante, lirica, sentimentalmente complessa ma sempre emozionante, Rorem possedeva l’arte dello scrittore di racconti, poco interessato a epiche ed epopee: il suo talento era melodico e timbrico e beneficiava di un superbo artigianato nella scrittura e nel disegno formale. Seppure intriso di cultura quacchera, Rorem è stato un insuperabile, delicato ma strutturalmente corposo e raffinatamente sensuale cantore dell’amore, nonché artista capace di cogliere nei testi delle poesie musicate l’intera loro vita interiore. Intellettuale a pieno titolo, Rorem ha attraversato quasi tutto il Novecento e si apprestava, fra un anno, a compiere cent’anni. Eppure, come sempre accade con gli artisti più profondi, si può dire che se ne sia andato troppo presto».
LEGAMI
Su Rorem ci sarebbe molto da dire, figura a tutto tondo di «uomo colto» o «genio poliedrico» in grado di ripercorrere ogni forma sonora classica, come pure di avventurarsi nella parola scritta, magari consapevole di una sorta di narratività al pentagramma o forse memore del fatto che, lavorando soprattutto con la voce cantata (song e lied), i nessi fra poesia e musica risultano evidentissimi. In una lunga conversazione del 1986 con Bruce Duffie (interamente disponibile sul sito di quest’ultimo) alla domanda se l’attività letteraria sia o meno una conseguenza di quella compositiva, Rorem risponde che «(…) la scrittura della prosa soddisfa in me esigenze molto diverse rispetto alla musica. Non so esattamente quali siano queste esigenze, ma le mie due vocazioni si sono sempre sovrapposte in una certa misura. Quando sono stato pubblicato come scrittore di prosa – che era solo un paio di decenni fa – ero già un compositore che si esibiva da vent’anni. La mia musica l’avevo sempre considerata elegante, incontaminata, ben fatta e circospetta – francese, se vuoi – e la prosa era arrogante, meschina, sanguinaria, selvaggia e senza disciplina. Un diario è sempre, per definizione, una cosa a tempo indeterminato comunque, e non appena ho capito che perfetti sconosciuti leggeranno la mia prosa, sono cambiato completamente – come Jekyll e Hyde – e sono diventato molto più responsabile nella mia prosa».
In effetti la fama in vita di Rorem è per così dire equamente ripartita fra le 500 «canzoni d’arte» e i controversi diari (mai pubblicati in Italia); ed è una vita «tranquillamente provocatoria», in almeno due direzioni, la prima delle quali resta sicuramente la musica: da un lato compone sinfonie, concerti e opere nello stile classico con qualche sconfinamento da Premio Pulitzer (in effetti vinto nel 1976 con Air Music. Ten Etudes for Orchestra), dall’altro ottiene una sempre più crescente reputazione artistica grazie al corpus canzonettistico, a partire dal brano The Lordly Hudson che gli consente, appena diciannovenne di ottenere un premio e conseguentemente la borsa di studio al prestigioso Curtis Institute of Music di Filadelfia, che gli garantisce solide basi tecnico-espressive.
Benché Air Music resti ancor oggi tra i pezzi di Rorem più noti ed eseguiti, risulta un’eccezione rispetto all’opera omnia, quasi a lanciare una sfida con se stesso rispetto alla propria poetica musicale: nel momento in cui il mondo accademico statunitense è ormai coinvolto o invaghito nell’europeista «serialismo», il compositore da sempre vicino alla prassi della tonalità tradizionale, si cimenta in tale variante della musica post dodecafonica, rivelando nel 2003, con la tipica arguzia, i motivi di una scelta verso cui nessun collega presta attenzione: «Quando sono arrivati i ‘serial killer’, diversi compositori tonali hanno disertato verso il campo opposto, e hanno scritto ciò che veniva seguito in quei tempi. Alcuni lo fanno ancora. Ma altri hanno di nuovo cambiato idea e sono tornati all’ovile. Io mi sentivo come il fratello maggiore del figliol prodigo: ero sempre stato un bravo ragazzo».
ESORDI LETTERARI
Stimato da tutti nelle vesti di compositore, all’esordio letterario, Rorem viene persino additato come «licenzioso» ed «eccessivamente indiscreto» da Janet Flanner, scrittrice del New Yorker, giacché l’esordio ufficiale con Diario di Parigi (1966), include una cronaca esplicita della vita gay, ancora esorcizzata o denigrata, all’epoca, dagli ambienti culturali progressisti. Ci vorranno anni per essere accettato quale prosatore, merito ad esempio di Tim Page, critico musicale e anch’egli vincitore di un Pulitzer, che diverrà un vero fan dei libri di Rorem: «Anche se ammiro molto le sue composizioni, direi che, in un certo senso, i diari e i saggi sono le cose più significative almeno per me. La cosa incoraggiante di Ned è che anche quando non sei d’accordo con lui, ti fa pensare e credo che sia il segno di una vera critica da maestro».
A seconda del mezzo con cui lavora come artista, Rorem si apre o si chiude nel condividere con i propri fruitori i tanti lati di una personalità sfaccettata: con la letteratura lo svelamento (o rivelazione) di sé avviene al 100%, con la musica assai meno. Page è fra i primi a intuirlo: «Ned era quasi orgoglioso di un certo distacco emotivo, di un certo tipo di abilità artigianale. I suoi diari erano il nascondiglio dove teneva le proprie confessioni: la sua musica era qualcos’altro». Del resto Rorem medesimo, in un libro autobiografico significativamente intitolato Lies (Bugie) lo dice esplicitamente: «Non credo che i compositori annotino i loro stati d’animo, non dicono alla musica dove andare. È piuttosto la musica a condurli… Perché scrivo musica? Perché voglio ascoltarla. È semplice. Altri potrebbero avere più talento, più senso del dovere. Ma io compongo solo per necessità, e nessun altro fa ciò di cui ho bisogno».