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«Nebraska», il Boss capovolto

«Nebraska», il Boss capovoltoLa copertina di «Liberami dal nulla-Bruce Springsteen e Nebraska» (Jimenez), il libro di Warren Zanes

Pagine/È stato appena pubblicato anche in Italia il libro di Warren Zanes sul disco folk di Springsteen, frutto di anni di ricerche e conversazioni con l’artista

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 1 giugno 2024

La grandezza di certi artisti, nei più vari campi d’espressione, è di saper convertire il proprio personalissimo periodo di disperazione in arte. Un esorcismo della sofferenza, un fare i conti con se stessi senza sconti che può essere poi ripudiato o ignorato, o servire da trampolino per il rilancio, perché comporta una discesa nel dolore, nella solitudine lacerantemente creativa di quel momento. Riandiamo con la mente a Edvard Munch che sottoponeva i suoi quadri a quella che definiva la «cura da cavalli», esponendoli masochisticamente alle intemperie perché si rovinassero. Pensate ai corvi minacciosi che volano sinistri nelle ultime tele di Van Gogh. Considerate, e qui ci avviciniamo all’ubi consistam di questa riflessione, un labirintico poeta del rock come Neil Young e un suo disco che, per coincidenza della sorte, proprio quest’anno compie mezzo secolo, On the Beach: un pezzo importante della «trilogia del dolore» in disco che lo stesso rocker canadese ha cercato di esorcizzare in mille modi, ma ha (parzialmente) domato solo mettendo in canzoni cupe e meravigliose il mondo che gli si sfarinava attorno.

MILLE RIVOLI
È successo anche a un altro rocker dalle invidiabili sorti di mercato, un rocker oggi più che settantenne con qualche ovvio e naturale problema di mantenimento dell’energia travolgente dei suoi trent’anni, ma sempre in pista per concerti infiniti, Bruce Springsteen. Epitome di un rock schietto e diretto, transitato per recuperi brillanti della tradizione folk a stelle e strisce più generosamente democratica, vedi alla voce Pete Seeger, per un recupero recente dei colori fibrillanti di Broadway, per mille rivoli del gran solco scavato nella storia dalla popular music nel Novecento.
C’è un momento buio e intessuto di riflessioni amarissime sulla società e su se stesso anche per Bruce Springsteen, un momento scatenatosi con una potenza deflagrante e minimale al contempo, un’esplosione, dunque, che è stata anche un’implosione. Quel momento si chiama come uno stato nordamericano, Nebraska. È il rovescio esatto della magniloquenza narrativa di The River, 1980, un infittirsi affannato di brani che stiparono un doppio ellepì. Ondata emotiva al racconto che Springsteen spesso non controlla e che qui, in particolare, fece fatica a domare. Scelta ristretta, peraltro, da un’ottantina abbondante di canzoni abbozzate: materiale per sette, otto dischi. Poi arrivò la crisi. E Nebraska, una sottrazione e un’approssimazione per difetto ad amare verità ad altissimo peso specifico.
Nebraska capovolge quasi tutto quello che il rocker del New Jersey aveva imbastito per strutturare una sua personale, sofferta via verso un rock epico, sincero e destinato a durare, come i classici degli anni Cinquanta e Sessanta. E dunque, nel codice springsteeniano: controllo totale sul materiale, ricerca ossessiva del suono perfetto e rappresentativo di «quel» momento, tentativi ripetuti fino all’esasperazione di riuscire a riprodurre in studio l’incandescenza vitale dei fluviali concetti «live», necessità di avere una band con un suono grande e grosso. Bruce Springsteen scompagina tutto il suo essere e far musica, con Nebraska. Sceglie di entrare da solo nel buio, e alla fine del percorso ci sarà di nuovo la luce, una nuova luce complementare all’oscurità sperimentata sulla pelle.
Ci voleva un rocker vero che sapesse cosa vuol dire sentirsi il peso di un’elettrica addosso, il calore pericoloso del palco, il fremito che coglie quando una canzone comincia a prendere corpo in un angolo della testa e le dita corrono a cercare gli accordi, per riuscire a entrare nello Springsteen desolato e inedito di quello che lui stesso continua a ritenere il disco più importante della sua vita: Nebraska. Anno di grazia 1982, quando il rock aveva scelto la via del techno pop e dei colori laccati, delle registrazioni pompate nella «loudness war» e dello sfavillio un po’ vacuo. Nebraska è un disco nudo, puro e crudo. In un bianco e nero doloroso e antico. Quel rocker che è riuscito a chiarire il mistero cupo e intenso di Nebraska è anche, oggi, un professore alla New York University, dopo aver conseguito un dottorato di ricerca in studi visivi e culturali a Rochester. È Warren Zanes, e la chitarra non l’ha appesa al chiodo. Ancora oggi continua a scrivere e registrare la sua musica. Chi è appassionato di rock lo ricorda con una band generosa e di poche fortune, i Del Fuegos. Cui capitò, anche, di dividere il palco con lo stesso Springsteen.
In buona sostanza Warren Zanes è per il rock quello che gli antropologi sul campo sono per l’etnografia: un «osservatore partecipante» di ciò che studia. E ciò che studia e pratica è il mondo dell’«Americana», quel rock che aspira alla sincerità dello stile di vita «blue collar», quelli che devono lavorare duro per sopravvivere in un paese che ha rimosso il concetto stesso di lotta di classe. Si intitola Liberami dal nulla-Bruce Springsteen e Nebraska il libro di Warren Zanes, pubblicato ora nella versione italiana da Jimenez, e frutto di anni di ricerche e conversazioni con lo stesso autore di Nebraska.

IN DIREZIONE OPPOSTA
Bruce Springsteen ha spesso celato, sotto la facies trionfante ed epica del suo rock stradaiolo e della sua band compatta come un pugno una fragilità interiore fatta di crisi depressive, insicurezza sui propri mezzi, insoddisfazione. Nel 2010 confidò a un giornalista: «Sul palco mi lancio nella direzione opposta a quello che sento dentro, la reticenza e l’alienazione. Là fuori ci sono tutte quelle persone, ma sotto i miei piedi c’è un abisso, ne percepisco costantemente la presenza, là in basso». Quello che gli si insinua sottopelle ed esplode, poi, dopo aver pubblicato The River, e, prima ancora, un disco apparentemente tutto positività e furore stradaiolo come Born to Run. ll Boss dei primi anni Ottanta ha passato la boa dei trent’anni, una storia d’amore che s’è schiantata in mille pezzi come una vetrata, un presente fatto di letture convulse e importanti, film d’autore guardati a tarda notte da solo, una casa modesta e un po’ squallida presa in affitto a Colts Neck, dopo aver perso la sua fattoria, per rintanarsi a pensare. E a mettere le mani sulla chitarra acustica. La disperazione diventa creativa, gli suggerisce di andare a scavare nelle storie sedimentate nei decenni di storia americana, il rovescio buio dell’American Dream e della «terra delle opportunità».
E allora, precisa nel suo lavoro di scavo Warren Zanes, ecco Springsteen che medita sui racconti spettrali e intrisi di angoscia della cattolica Flannery O’Connor, che guarda e riguarda il libro di fotografie di Robert Frank Gli americani, il film di Charles Laughton La morte corre sul fiume e Badlands (in italiano La rabbia giovane) di Terrence Malick, sul giovanissimo serial killer Charles Starkweather, nel 1958, e ancora le atmosfere di Toro scatenato di Scorsese.
Bruce si fa portare in casa un registratore Teac 144, quattro piste che consentono di registrare su audiocassetta, e effettuare qualche sovraincisione, un registratore casalingo, secondo uno standard hi-fi. Nessun amplificatore, chitarre, armoniche, mandolino, un glokenspiel che evocava suoni d’infanzia. Uno strano effetto eco che aleggia ovunque.
Il Boss è libero di fare i «demo» che vuole, e pensando che un giorno quei brani avranno tutta la polpa aggiunta del suono della «sua» band. Resteranno i demo che erano, perdipiù missati su uno stereo portatile Panasonic che era pure finito nell’acqua, e funzionava precariamente. Saranno quelli i nastri pubblicati su Nebraska, con tutte le loro imperfezioni, dopo aver provato invano per mesi a rivestire di suono di gruppo quelle canzoni crude e desolate che mettono addosso i brividi ancora oggi, dall’iniziale Nebraska alla conclusiva Reason to Believe. Scelta coraggiosa e contro ogni logica di mercato. Ne resterà fuori una, e segnerà tutta un’altra storia di fortune, con tutt’altri panni musicali a rivestirla: Born in the U.S.A.

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