Nello weekend scorso si è tenuto a Roma un convegno internazionale promosso dalla Società Psicoanalitica Italiana e organizzato dal gruppo Geografie della Psicoanalisi coordinato da Lorena Preta.
Un convegno sul complesso e molto attuale tema dell’intreccio della vita con la morte, intitolato “Still life”: “natura morta”, o “ancora vita”. Nel suo elegante e intenso intervento Mariano Hornestein, psicoanalista argentino, ha riportato la risposta che il dittatore Videla dette a Papa Giovanni Paolo II, quando, tramite un giornalista, gli chiese informazioni sui desaparecidos:

«Per quanto riguarda questo fatto in quanto tale, si tratta di uno sconosciuto che è scomparso. Se l’uomo apparisse avrebbe un trattamento X, se l’apparizione diventasse una certezza della sua morte avrebbe un trattamento Z, ma finché è scomparso non può avere un trattamento speciale, è una persona scomparsa, non ha un’entità, non è né vivo né morto, è scomparso». Hornestein fa notare che l’espressione «trattamento speciale» è l’eufemismo nazista per il genocidio degli Ebrei.

Intervenendo nel dibattito Silvia Vegetti Finzi, ha associato i desaparecidos -in gran parte annegati, fatti gettare da aerei militari nel Rio de la Plata- ai migranti che spariscono nel Mediterraneo. Chiedendosi con inquietudine se non siamo di fronte a una nuova “soluzione finale”.

Nelle parole usate da Videla è degno di attenzione che egli parla dello scomparso definendolo «sconosciuto». Nella sua prospettiva, rivelatrice della natura della «soluzione finale» (che dimora nella mente perversa incarnata di volta in volta in un personaggio esemplare), scompare chi ha già lo stato della persona estranea, di cui nulla si conosce e di cui nulla si vuol conoscere. Scompare perché non è degno di interesse, se non negativamente, come oggetto impersonale di pulizia. L’ebreo, il dissidente, il migrante devono sparire dalla vista come sporcizia di cui liberarsi. Sporcano perché disturbano una percezione del mondo priva di passioni e di conflitti, dove i sentimenti e pensieri che prendono forma a partire dalla loro maturazione e elaborazione sono vissuti in termini di grave disagio. Se il mondo è contraddittorio, complesso da conoscere e abitare, si deve semplificarlo, squadrarlo e ciò che non rientra nello schema stabilito, è tagliato fuori con l’accetta di Procuste.

L’ebreo, il dissidente, il migrante sono accomunati dall’essere disomogenei di fatto – per scelta soggettiva, tradizione culturale, configurazione oggettiva come elemento mobile della vita sociale- rispetto all’omologazione immaginaria della vita a schemi mentali/comportamentali che la rendono prevedibile, ripetitiva e ordinata. Non possono essere amati né odiati, non interessa quello che desiderano, sentono e pensano. Il pulitore non può entrare in relazione con loro perché non dispone di sentimenti che gli permettono di farlo: la pulizia riguarda, in realtà, il suo modo di sentire ed egli si sbarazza di chi disordina il suo assetto emotivo privo di trasformazioni. Chiuso a ogni forma di coinvolgimento che avverte come destabilizzazione catastrofica, deve liberarsi dell’altro per liberarsi dell’intensità e profondità delle proprie emozioni. È un vivente in superficie e morto in profondità che tratta coloro che minacciano la sua atarassia affettiva come entità incomprensibili, inconcepibili. Non essendo concepibili non possono né morire, né vivere. Devono dissolversi. In fondo rendendoli morti viventi li rende omogenei alla sua materia.

Dopo Antigone avremmo dovuto capire che gli spariti, i dissolti senza dimora (né nel regno dei vivi, né nel regno dei morti), infettano con la morte la Polis. Occlude la nostra comprensione l’indifferenza, l’accetta più spietata della logica di Procuste che invade periodicamente l’umanità. Con i migranti non siamo alla «soluzione finale» Lasciamo spazio e tempo al lavoro dell’indifferenza e essa rivivrà.