‘Ndrangheta, 190 anni di carcere al clan Gallace nel Lazio
'Ndrangheta Il tribunale di Velletri, dopo sette anni di dibattimento, emette la prima sentenza di condanna
'Ndrangheta Il tribunale di Velletri, dopo sette anni di dibattimento, emette la prima sentenza di condanna
Sono servite ventotto ore di camera di consiglio, sessantacinque udienze e sette anni di dibattimento. Un processo complesso, pieno di ostacoli, rinvii, impedimenti. Con un’accusa storica, confermata ieri dal Tribunale di Velletri: la ‘ndrangheta non solo ha infiltrato la provincia di Roma, ma ha costituito vere e proprie “locali”, unità con una loro autonomia operativa.
Con una condanna complessiva a 190 anni di detenzione – gran parte dei quali per associazione mafiosa – il clan Gallace radicato tra Anzio e Nettuno è stato riconosciuto, per ora in primo grado, nella sua pericolosità. Originario della città della zona ionica della Calabria Guardavalle, aveva iniziato a operare sul litorale romano già negli anni ’80, controllando – spiegano le indagini – il narcotraffico della zona. Una ascesa consentita da decenni di silenzi e di complicità, come aveva dimostrato la commissione di accesso nel 2005, quando il consiglio comunale di Nettuno venne sciolto – unico caso nel Lazio – per infiltrazione mafiosa. Almeno una decina gli affiliati, stando alla sentenza di ieri. Molti di più, secondo le lunghe e complesse indagini coordinate una decina di anni fa dal pm della Dda di Roma Francesco Polino e affidate al Ros dei carabinieri. Una presenza segnalata più volte nelle relazioni dell’antimafia, che aspettava solo la conferma giudiziaria.
Le indagini partirono nel 1997 quasi per caso. I carabinieri stavano cercando un latitante, fuggito dalla Calabria. Dalle intercettazioni telefoniche – attivate dalla Dda di Roma – apparve chiaro che nella zona di Anzio e Nettuno un nutrito gruppo legato ai Gallace era particolarmente attivo. Il riferimento era Vincenzo Gallace – condannato ieri a 16 anni di reclusione e ritenuto il promotore del clan – che negli anni successivi ha assunto un ruolo chiave all’interno della ‘ndrangheta. Fu lui – secondo una sentenza del Tribunale di Milano dello scorso 4 febbraio – a chiedere l’uccisione di Carmelo Novella, il suo alleato che stava tentando di rendere autonoma la Lombardia dalla ‘ndrangheta calabrese. Nel 2002 la procura di Roma chiede i primi arresti, ma il Gip rinvia tutto al tribunale di Catanzaro, dichiarandosi non competente. Dopo un rigetto simile da parte dei giudici calabresi – che ritenevano radicata ad Anzio e Nettuno quella parte della cosca originaria di Guardavalle – fu la Cassazione, nel 2004, a decidere la competenza del Tribunale di Velletri.
Dopo gli arresti iniziò il travagliato percorso giudiziario. Il Gip di Roma annullò una parte importante delle conversazioni ambientali registrate dai carabinieri del Ros, prosciogliendo molti indagati. Il giudizio di primo grado ha forse battuto ogni record di durata per un processo per mafia. Le 65 udienze sono state spalmate su sette lunghissimi anni. Difficoltà nelle notifiche, legittimi impedimenti e un cambio del collegio hanno trasformato in una corsa contro il tempo il processo.
La vera svolta è arrivata dopo l’operazione della Dda di Milano «Infinito». Nel 2010 il pm Ilda Boccassini chiese e ottenne centinaia di arresti che colpirono diverse locali di ‘ndrangheta in Lombardia. Dopo pochi mesi un ex affiliato del clan Gallace, Antonino Belnome, decise di collaborare, raccontando l’ascesa della cosca radicata a Guardavalle, tra il Lazio e la provincia di Milano. Secondo il suo racconto anche durante il processo in corso a Velletri gli affiliati continuavano a esercitare il loro potere e i loro affari. «Ho visto la cocaina che gestivano – ha raccontato davanti al collegio del Tribunale di Velletri nell’ottobre del 2011 – prima del mio arresto, nel 2010. Era arrivato un carico di 400 chili e andavano a ritirarne 120: mi dissero che c’era questa disponibilità».
Non solo. Belnome indicò la presenza di un capo della “locale” di Nettuno, non incluso nell’elenco degli imputati condannati ieri: «Si chiama Giacomo, non so se è veramente il suo nome o un soprannome, ha una cinquantina d’anni, è originario della Calabria ma si è radicato a Nettuno da diverso tempo». Parole che suonano come «una risposta a chi, ancora oggi, nel litorale sottovaluta il fenomeno mafioso negandone l’esistenza pervicacemente», ha dichiarato Edoardo Levantini del comitato antimafia di Anzio e Nettuno.
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