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Nato per perdere, mentre intorno scoppia il boom minerario

Nato per perdere, mentre intorno scoppia il boom minerarioRon Mueck, «Man in boat», 2000-2

Narrativa australiana In uno stile sincopato e traversato da un caustico umorismo, la storia di un ambientalista caduto in disgrazia. Accanto a lui, due donne prepotentemente determinate e un enigmatico bambino: «Il nido» da Fazi

Pubblicato più di 7 anni fa

Indagando lo stato della nazione in cui è nato e risiede attraverso un racconto spesso enigmatico, popolato da personaggi che incarnano gli archetipi cari alla letteratura australiana – perdenti, sconfitti, uomini e donne soli nel contesto di una natura stupenda, ma non sempre amica e raramente decifrabile – Tim Winton è diventato una gloria nazionale, ed è, in effetti, l’unico scrittore ad avere vinto per ben quattro volte il più prestigioso premio letterario locale, il Miles Franklin Award.

Anche nel suo ultimo romanzo, Il nido – appena tradotto (da Stefano Tummolini, Fazi, pp. 442, euro 19.50) – per denunciare le conseguenze nefaste del boom minerario nella sua regione, il Western Australia, Winton racconta la storia di un loser, Tom Keely, ambientalista finito in disgrazia dopo aver denunciato pubblicamente la corruzione di un membro del parlamento.
Licenziato dall’organizzazione per cui lavorava, abbandonato dai suoi compagni, Tom, che nel frattempo ha anche divorziato dalla moglie, si lascia andare alla deriva, tra alcol e medicinali d’ogni sorta, in uno squallido appartamento al decimo piano del più brutto palazzo di Fremantle, la ricca cittadina portuale situata a meno di mezz’ora dal capoluogo del Western Australia, Perth.

Simile a un antieroe di Knut Hamson (autore non a caso citato nel romanzo) Keely scivola inesorabilmente verso la totale indigenza e la perdita dell’equilibrio mentale, fra tremendi postumi di sbornia – stupefacente l’incipit, una delle più realistiche e al tempo stesso allucinate descrizioni di un risveglio dopo una colossale ubriacatura – e inquietanti blackout di memoria. Rappresentante di tutta una generazione idealista resa impotente dal momento storico – il romanzo è ambientato nel 2008, quando «il mondo si stava strozzando con un osso in gola… Ma in patria aveva conseguenze minime. C’erano miniere inesauribili da razziare» – Keely si «crogiola nelle delizie della disperazione», pur restando sempre impietoso verso se stesso e la propria sorte: «Siamo nati per perdere», afferma. «E per quante campagne e calcoli possiamo fare, i bulldozer alla fine arrivano sempre, le organizzazioni se ne lavano le mani, i media ci fanno un po’ di colore e si ricomincia daccapo. Siamo la notizia di passaggio prima dei risultati sportivi».

Accanto a Tom Keeley, Winton mette due figure femminili che, al pari del protagonista, rappresentano altrettante variazioni su un prototipo tipicamente australiano, quello della battler, la combattente, la donna forte che si trova a far fronte da sola alle necessità e alle minacce del vivere quotidiano, in assenza di un marito o di una figura paterna. Sia Doris, la madre di Keely, sia Gemma, la vicina di casa riemersa da un lontanissimo passato, hanno dovuto imparare sulla loro pelle a sostenersi e sostenere da sole il peso di una famiglia: una è anziana, vedova, laureata in legge, razionale e intelligente, l’altra è una quarantenne proletaria scostante e manipolatrice, segnata da un passato di abusi e sopraffazioni.
Di fronte alla forza e alla determinazione di queste due donne risalta ancora di più la debolezza di Keely che, suo malgrado, si trova a doversi confrontare anche e soprattutto, con un quarto personaggio, il più enigmatico, ma forse anche il più importante e il meglio riuscito del romanzo: Kai, uno strano bambino di sei anni, nipote di Gemma, nato dalla relazione tra la figlia di lei, rinchiusa in carcere per droga, e un tossico sociopatico e pericoloso.
Provvisto di un pallore spettrale, che spicca tra le abbronzature dei bagnanti di Fremantle al punto da farlo sembrare una creatura fantasmatica, Kai è un bambino che ha visto e sentito troppo: isolato nel suo mondo di uccelli rari e sogni inquietanti di voli e cadute, è ossessionato dalla morte («una sensazione di tristezza. Come … come se tutto va via, si spegne … come quando finisce il giorno») sicuro peraltro di non arrivare mai a invecchiare.
Un desiderio insoddisfatto di paternità tormenta Keely, che continuamente si confronta con la figura del proprio padre, una sorta di gigante buono, vendicatore degli oppressi, scomparso prematuramente, e mentre instaura con Kai un rapporto per molti aspetti simile a quello tra padre e figlio raccontato nella Strada di Cormac McCarthy, la relazione dei due con Gemma viene assumendo i connotati di una famiglia atipica e improbabile – «Una donna sola. Un bambino senza amici. E un uomo allo sbando» –, quasi l’esatto contrario della famiglia, generosa e aperta all’aiuto dei meno fortunati, in cui Keely era cresciuto e Gemma nell’infanzia aveva trovato protezione dagli abusi paterni.
Qui, come sempre in Tim Winton (valga per tutti l’esempio del suo romanzo più famoso, Cloudstreet), il tema della famiglia, vista sia come rifugio e ricettacolo di speranze, sia come luogo di traumi inguaribili e sbagli che non è dato correggere, si intreccia con un discorso sulla differenza tra classi sociali. Se Cloudstreet attraverso la storia di due famiglie offriva uno spaccato di vita operaia tra il 1943 e il 1963, nel Nido Winton è attento a sottolineare le differenze tra l’auto-annientamento di Keely, esponente della classe media che rifiuta di riprendere in mano il proprio destino, e gli sforzi per sopravvivere del sottoproletariato che vive ai margini della città, e a cui il boom minerario non offre alcuna possibilità di miglioramento. Il dilemma che si trova ad affrontare il fragilissimo Keely non è soltanto come salvare Kai dalla violenza paterna e dai suoi stessi fantasmi, ma anche come reagire a un mondo avviato alla rovina, perché ha scelto di mettere l’economia al primo posto, prima dei sentimenti, degli affetti, ma anche della legalità.

Scritto in uno stile scarno, sincopato e agile, in cui anche i dettagli delle descrizioni si snodano ritmicamente, illuminato da un umorismo caustico dalle sfumature a tratti decisamente nere, Il nido è un lungo romanzo che si legge d’un fiato, un atto di denuncia che coinvolge il lettore come un thriller. Purtroppo, nella traduzione italiana si perdono (né potrebbe essere altrimenti) gli elementi vernacolari che coloriscono il lessico di Winton.
Lo stesso titolo del romanzo, Eyirie («nido d’aquila») è stato semplificato in un generico «nido», eliminando completamente il senso di apertura evocato dall’assonanza con il termine «air» e attenuando il riferimento alla metafora del volo (e della caduta) che attraversa tutto il libro. Ma sono dettagli, perché la traduzione, sempre scorrevole, riesce comunque a restituire il nucleo portante della vicenda, ovvero il processo di maturazione di Keely che, al termine del romanzo, può a buon diritto identificarsi con la figura-chiave della narrativa australiana, lo sconfitto che giace nella polvere, ma ha saputo vendere cara la pelle.

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