Nativi mericani, la dignità perduta di un marchio
Sport La tutela della dignità degli indiani d'America assiemi alle leggi del business. Due casi emblematici
Sport La tutela della dignità degli indiani d'America assiemi alle leggi del business. Due casi emblematici
La tutela della dignità degli indiani d’America assieme alle leggi dello sport business, della montagna di dollari che entra nelle casse delle squadre sportive. Negli Stati uniti alla vigilia delle tumultuose Presidenziali e dopo un’estate carica di violenze ai danni degli afroamericani, continua l’impegno degli eredi dei nativi americani, sostenuti dagli attivisti, contro le franchigie dello sport che utilizzerebbero la loro immagine in modo offensivo. Tra caricature e mascotte che cavalcano lo stereotipo del nativo, che danza con il copricapo vestito in camoscio, gli zigomi dipinti.
Immagini che colpiscono e producono dollari, ma vissute come un’offesa. Qualche giorno fa alcuni attivisti canadesi si sono visti respingere da una corte dell’Ontario la richiesta di vietare ai Cleveland Indians (Major League Baseball) di utilizzare il logo della società nella gara di playoff contro i Toronto Blue Jays. Chief Wahoo, un amerindio dalla pelle rossa sgargiante, occhi triangolari, naso enorme e con una piuma in testa. Una specie di icona che resiste da oltre 100 anni. Ogni anno i rappresentanti delle tribù dell’Ohio e delle associazioni dei nativi hanno manifestato all’avvio del campionato contro la società, accusandola di razzismo per l’impiego del logo. E la stessa franchigia nel corso degli anni ha deciso di utilizzarlo meno, mai di cancellarlo, nonostante le numerose cause legali a carico.
E il tema è piuttosto caldo anche perché nello sport americano ci sono circa 400 squadre con l’appellativo Indians, oltre quota tremila se si considerano tutte quelle coinvolte dalle disputa sulle presunte offese ai danni dei nativi americani. Con la commissione per i diritti civili (Us Commission on Civil Rights) che pure ha stilato una serie di indicazioni per società sportive e high school per modificare i loghi inopportuni e discriminatori. Dal baseball al football, la questione tocca i Seattle Seahawks (sul logo un falco pescatore ispirato all’arte dei nativi dello Stato di Washington), oppure i Kansas City Chiefs, con la danza del tomahawk chop ma soprattutto la franchigia di Washington e il suo appellativo redskin, pellirossa, il logo che rappresenta una delle società più ricche e famose della Nfl.
Del caso si era interessata la politica, con una decina di membri del Congresso che scriveva al patron dei Redskins e della Lega, chiedendo di cambiare il nome alla squadra. Niente da fare. E non perché, come ha provato a giustificarsi la Nfl, solo una minima parte dei nativi americani ritenesse offensivo l’utilizzo del soprannome ma per il peso economico del giro d’affari dei Washington Redskins, ottavo club sportivo che vale di più al mondo. Perché la banconota in verde conta più della memoria dei visi pallidi.
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