Sociologa da sempre attenta alle dinamiche e alle trasformazioni di quello che Arthur Danto ormai più di cinquant’anni fa ha definito l’art world, un mondo dell’arte dalle regole non scritte eppure inflessibili e talvolta crudeli, Nathalie Heinich non ha mai rinunciato a prendere posizioni decise, talvolta irriverenti, all’interno del contemporaneo dibattito sullo statuto (sullo stato di salute) dell’opera d’arte e, più in generale, sulla continua espansione della nozione di bene culturale. A questo proposito nella Fabrique du patrimoine del 2009 aveva messo a fuoco dalla prospettiva dell’oggetto (de la cathedrale à la petite cuiere era il sottotitolo di quel sulfureo libretto) il processo di annessione all’ambito culturale e, quindi, la generalizzata perdita del valore d’uso a favore di quello espositivo di luoghi cose e pratiche sociali, un fenomeno che – è la tesi da tempo sostenuta da Giorgio Agamben – ha prodotto una vera e propria musealizzazione del mondo. A essere evidenziata in quelle pagine affilate era quindi la crescente dilatazione dei confini del patrimonio culturale, che oltre ai beni materiali ha visto l’ingresso nel suo infinito inventario anche dei beni immateriali, a cui si consacrano sempre più numerosi – e peraltro materialissimi – spazi di esposizione e di conservazione.

A distanza di qualche anno, con obiettivi e strumenti metodologici non molto diversi, Heinich ha scelto, nel volume Il paradigma dell’arte contemporanea Strutture di una rivoluzione artistica (Johan & Levi, pp. 272, euro 27,00), di rivolgere il suo sguardo al sistema dell’arte contemporanea, facendone materia di una trattazione molto ampia, sicuramente avvincente e parziale, che dell’arte contemporanea evidenzia lo specifico paradigma, radicalmente distante da quello dell’arte moderna. Uscito nel 2014 in Francia, il saggio, che si dichiara in premessa refrattario a ogni discorso interpretativo «in nome di una descrizione poliedrica, basata sull’osservazione e non sulle speculazioni: una descrizione delle proprietà dell’oggetto (approccio ontologico), dei suoi effetti (approccio pragmatico) e dell’universo in cui si muove (approccio contestuale)», argomenta attraverso analisi plurali la tesi del mutamento di paradigma – il riferimento esplicito è a Thomas Kuhn e alla sua struttura delle rivoluzioni scientifiche – che avrebbe segnato a partire dagli anni sessanta del secolo scorso lo scenario dell’arte, creando una discontinuità netta fra le tensioni soggettive ed espressive del moderno e le spinte comunicative e il carattere impersonale, persino «inautentico» (ma, l’Heinich lo sottolinea, questo non è un giudizio di valore), dell’arte contemporanea.

Che l’opposizione moderno / contemporaneo non abbia un significato meramente cronologico ma si ponga come opposizione categoriale non rappresenta, va detto, una novità: già alla metà degli anni settanta, nella sua Linea analitica dell’arte moderna, Filiberto Menna scriveva della rottura epistemologica operata dall’arte moderna, che aveva messo in questione la corrispondenza immediata tra linguaggio e realtà, precisando che «si deve considerare moderna solo l’arte che ha attraversato il varco stretto di questa acquisizione teorica; l’arte che non si è accorta di questo passaggio, non è arte moderna ma solo cronologicamente contemporanea». Quella di Heinich è però una lettura molto diversa da quella che proponeva, in tutt’altro orizzonte teorico e storico, Menna: per la sociologa francese, infatti, «l’esigenza costitutiva dell’arte moderna è l’espressione dell’interiorità dell’artista», mentre il paradigma contemporaneo sarebbe segnato dal radicalizzarsi di un «regime di singolarità» che impone un perpetuo rinnovarsi e implica l’esercizio di una sistematica, e per questo alla fine convenzionale, delusione delle attese. Il suo gesto inaugurale vieni qui individuato, ancora una volta, nel ready-made duchampiano, un oggetto senza qualità e persino inesistente: che fine ha fatto, ad esempio, Fountain, il famigerato orinatoio capovolto, dopo essere stato immortalato da Stieglitz in una foto che di fatto ha sostituito l’opera?

In oltre duecento pagine il discorso di Heinich si muove con sicurezza persino eccessiva su un crinale scivoloso, proponendo polarità talvolta sommarie – una preliminare messa in discussione della questione moderno / modernismo sarebbe stata utile a definire meglio il campo della riflessione evitando così l’ambigua sovrapposizione di arte moderna e arte modernista –, ma il saggio ha certamente il merito indagare aspetti e figure diverse della scena artistica contemporanea mettendo l’accento su problemi che non sempre trovano sufficiente attenzione da parte di chi si occupa di interpretare «dall’interno» l’arte contemporanea e i meccanismi della sua legittimazione. Tra i venti capitoli che strutturano il libro come un caleidoscopio più che come un racconto (anche se poi a chiudere il volume è un epilogo, comunque interlocutorio) i più efficaci sono quelli che entrano nel vivo delle dinamiche di comunicazione, di fruizione e di mercato dell’arte contemporanea, mettendo in luce aspetti e interrogativi meno scontati. La problematicità dello spostamento delle opere, ad esempio, la cui incessante mobilità internazionale è resa difficile vuoi dalla natura immateriale dei lavori ( come si assicura o si tassa un’idea?), vuoi dall’eterogeneità delle componenti e dalla complessità del loro assemblaggio, la cui riuscita è intralciata dalla natura site-specific delle installazioni, il cui materiale è in ogni caso lo spazio espositivo.

Heinich si sofferma anche sui dilemmi del conservatore e sui tormenti del restauratore, affronta il tema del collezionismo e si occupa del ruolo, davvero ipertrofico, dell’artista, affacciandosi, forse un po’ troppo rapidamente, sul mondo in piena effervescenza dei musei. Tutto da una prospettiva, non solo teorica, molto francese, con una gran ricchezza di casi esemplari che scandiscono, anche visivamente, il testo del libro contribuendo a farne uno strumento utile, proprio perché discutibile, di riflessione su un mondo, quello dell’arte contemporanea, da cui nessuno oggi può veramente dirsi estraneo.