Narrazioni afghane al femminile, tra pop, erotismo e fantasticherie
Mostre Alle Gallerie delle Prigioni di Treviso «Qatra qatra, goccia a goccia, Visioni dall'Afghanistan» con le artiste Lida Abdul, Rada Akbar, Hangama Amiri e Kubra Khademi
Mostre Alle Gallerie delle Prigioni di Treviso «Qatra qatra, goccia a goccia, Visioni dall'Afghanistan» con le artiste Lida Abdul, Rada Akbar, Hangama Amiri e Kubra Khademi
«Non sono alla ricerca della bellezza – scrive Atiq Rahimi in L’immagine del ritorno – Cerco quel sentimento che rinasce ogni volta che si osserva una ferita. Ogni volta che guardiamo una ferita pensiamo anche al suo dolore».
È IN QUESTO SGUARDO che scava nel profondo lasciando affiorare sentimenti contrastanti, liberatori e ribelli, che si conferma la perseveranza delle artiste afghane e il loro coraggio nell’affrontare una narrazione che le riguarda, diversa da quella convenzionale. Partendo da questa riflessione il ricercatore Amanullah Mojadidi, curatore della mostra Qatra Qatra / Goccia a goccia. Visioni dall’Afghanistan – nonché dell’edizione afghana di Imago Mundi Collection – organizzata dalla Fondazione Imago Mundi alle Gallerie delle Prigioni di Treviso (fino al 9 gennaio 2022), all’indomani della nuova salita al potere dei talebani, nell’agosto scorso, ha invitato quattro artiste afghane: Lida Abdul (1973), Rada Akbar (1988), Hangama Amiri (1989) e Kubra Khademi (1989).
Ai loro lavori potentissimi è affiancato il film documentario Tea (2012) di Mario García Torres (1975), parte della sua ricerca su Alighiero Boetti: giunto a Kabul trent’anni dopo Boetti, l’artista messicano ha ritrovato l’One Hotel, luogo reale e metaforico di connessioni interculturali, offrendo una visione nostalgica non priva di suggestioni. Presente a Treviso con la performance Female Crimes (2021), l’artista femminista Kubra Khademi riprende il concetto della sua azione più nota Armor (2015), incentrata sulle reazioni degli uomini afghani nei confronti delle donne temute quasi come jinn, quando con indosso un’armatura metallica che esagerava i suoi seni e le natiche, aveva camminato nel quartiere popolare Kote Sangi a Kabul, costretta per questo a fuggire dal paese.
Anche in questa performance con delle protesi mammarie esageratamente grandi, ha lasciato che lo sguardo del pubblico, attraverso lo spioncino della porta dell’antica prigione asburgica, liberasse i pensieri più irrazionali. Ad acquarello ha realizzato l’omonima serie di disegni di matrice pop tracciando figure che sottolineano la confidenza nel relazionarsi al proprio corpo nudo, riferendosi con naturalezza alla sessualità, all’autoerotismo, alle mestruazioni. «Da bambina ho sempre disegnato. Mi piaceva molto, ricordo la sensazione di benessere che provavo quando disegnavo e gli apprezzamenti che ricevevo dai miei. Tranne una volta, quando disegnai delle figure femminili nude. All’epoca ritraevo solo bambine che indossavano abiti bellissimi: non erano altro che immagini di me.Quella volta disegnai tante donne nude. Le avevo viste con mia madre e le mie sorelle all’hammam di Mashhad, in Iran, dove eravamo esiliati a causa della guerra. Fu uno shock, ma ne fui anche affascinata. Tornai a casa e disegnai corpi nudi e vagine. Avrò avuto cinque, sei anni. Per la mia cultura non avrei dovuto farlo. Inconsciamente, avevo avuto paura nel mostrare quei disegni, perciò nascosi i fogli sotto il tappeto. Quando mia madre li trovò mi picchiò. Ero così imbarazzata che per anni non ho più disegnato donne nude», ricorda Khademi.
I «CRIMINI MORALI» che spaventano i leader talebani partono proprio dalla negazione di libertà e femminilità. Temi ricorrenti anche nelle fotografie di Rada Akbar (Invisible Captivity, 2013) e negli arazzi di Hangama Amiri (Mariam Beauty Salon, 2020 e Journalist, 2021). Creano, invece, un legame con un segmento di storia precedente i video di Lida Abdul (White House, 2005 e In Transit, 2008), da sempre entusiasta del cinema visionario di Sergei Parajanov e Andrej Tarkovskij.
Anche quando il presente è orribilmente connesso con morte e distruzione, la fantasia diventa strumento di sopravvivenza. Ecco, allora, scorrere le immagini dei ragazzini afghani che trasformano la carcassa dell’aereo da guerra sovietico in un uccello fantastico. Momenti in cui il silenzio si trasforma nel suono del nay (il flauto persiano di legno di rosa), prendendo in prestito un’altra sollecitazione visuale di Atiq Rahimi.
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