Pescare nello sterminato tesoro della canzone napoletana classica è un’operazione tentata da molti interpreti, da Renzo Arbore a Peppe Servillo, da Canio Loguercio ai South Designers (brani storici con ritmica house) passando per la creatività di tantissimi deejay. Il giovane trio Suonno d’Ajere, nome omaggio a una canzone di Pino Daniele contenuta nel primo album Terra Mia, ha scelto di rivitalizzare il patrimonio canoro partenopeo scegliendo la formazione classica dei posteggiatori d’inizio novecento – voce Irene Scarpato, mandolino Marcello Smigliante Gentile e chitarra Gian Marco Libeccio – e utilizzando brani antichi un po’ minori, rivestiti di blues elettrico, street noise, arpeggi jazzati portando nuova linfa a quelle perle dimenticate, con originalità e fantasia.
Hanno presentato a Napoli nei giorni scorsi (e il 24 aprile saranno a Roma al Museo degli strumenti musicali e il 16 maggio al Biko di Milano e poi tour internazionale, probabilmente coadiuvati da una vera formazione orchestrale) il loro secondo album, nun v’annammurate (su etichetta Italian World Beat) dove hanno alzato un po’ il tiro interpretando non solo le vecchie canzoni ascoltate da bambini a casa con mammà e papà ma variando i generi, dalla macchietta umoristica alla serenata palpitante, dal brano inedito al grande classico ( al concertone di beneficenza Life for Gaza hanno deliziato il pubblico con la loro versione strappaviscere di Munastero ‘e Santa Chiara).

NATO OTTO ANNI FA, l’ensemble che suona, canta e respira all’unisono, si è consacrato come il nuovo ambasciatore della canzone napoletana all’estero, con i live al Womex di Lisbona e al Babel Med di Marsiglia. Dopo la pubblicazione dei singoli Fotografia e E ggioche ‘e prestiggio (davvero acrobazie vocali e attoriali della cantante nel registro comico), il nuovo album ha dieci tracce, con una spettacolare sapienza d’interpretazione e una sapida dignità, cercando una strada contemporanea. Unico filo conduttore, raccontare l’amore da quello assoluto che infrange il sacro giuramento, Ammore buciardo, scritta nel 1944, con la voce di Raiz, ospite in questo brano : «Nun te si’ nchiusa cchiù dint’ ’o cunvento, nun te si’ fatta cchiù monaca santa…Che m’ ’o faciste a fa’ stu giuramento?» con i plettri che sottolineano l’andamento country western da steel guitar e le parole urlate che accoltellano. Ne possono mancare i momenti più ironici come Il Vesuvio a Parigi, datato 1955, sull’onda delle affinità elettive franco-napoletane (magnificate dallo swing delle sorelle Marinetti), affinità canore e sentimentali (già illustrate magicamente in L’ammore mio è francese o Guì!Guì) o il rifiuto beffardo delle dolcezze in A canzone d’o roccocò, inventata da due maestri del festival della canzone, De Crescenzo e Vian, quelli del capolavoro Luna Rossa.

IL TITOLO dell’album prende spunto dal brano originale Munno Cane dell’autore vesuviano Toto Toralbo, un altro giovane cantautore, già vincitore del premio Musicultura. E non può mancare una morosa che accetta filosoficamente il peggio, una ragazza disposta a chiudere gli occhi, a stordirsi col sonnifero nel bicchiere, a morire con una febbre terzana nel drammatico ‘A Gelusia, cavallo di battaglia del 1934 di Lina Resal «Damme ’nu poco ’adduóbbeco ’int’ô vino, si ’n’ato ammore dint’ô core tiene. E mentre sto durmenno a suonno chino, ’nzuonno mme sonno ca mme vuó cchiù bene». Attacchi ritmati di cordofoni introducono la danza degli spaghetti a vongole, ‘O calippese napulitano, scritto da Nisa e Malgoni nel 1955 e il superclassico di Farfariello (all’anagrafe Eduardo Migliaccio, stella degli emigranti) in ‘Mparame ‘a via d’ ‘a casa mia: «Portame a casa mia, me voglio anda’ a cucca’, me ne so’ asciuto ajere non saccio cchiù addo’ sta. M’ha fatto male, i’ crere, quell’urtemo bicchiere. Chi m’empara pe’ cortesia ‘a via d’‘a casa mia». Una strada magnifica, quella dei Suonno d’Ajere, una ricerca rigorosa per ritrovare l’essenza dei classici, con stile e creatività.