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Napoli, l’acqua sparita

Napoli, l’acqua sparitaNapoli, una litografia del 1889 raffigurante via Chiatamone – Getty Images

Storie Le antiche fonti di acqua sulfurea e ferrata, donate al popolo con un editto del Settecento, sono state soffocate dagli assetti urbanistici post unità d'Italia e dai grandi alberghi. Al Tar è in corso la battaglia legale per il vincolo storico e demo-etnoantropologico sulla sorgente del Chiatamone

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 15 dicembre 2023

Nel costone tufaceo del Monte Echia il mare ha scavato delle grotte, abitate già in età preistorica. I greci chiamavano quegli antri platamón ed è dal nome greco che è venuto fuori il toponimo via Chiatamone. Siamo nel primo nucleo di fondazione della Napoli greca, in quelle stesse grotte si tenevano riti priapici che nel Cinquecento il viceré don Pedro da Toledo dovette vietare, ma la natura bellissima e l’attitudine allo scandalo proseguirono fino a tutto il Settecento, quando lo stesso Casanova si stabilì a Santa Lucia. Il borgo napoletano era indissolubilmente legato all’acqua: la popolazione era fatta essenzialmente di marinai e pescatori, chi non navigava viveva delle fonti che sgorgavano proprio dalle grotte. L’oro azzurro era di due tipi: l’acqua «suffregna» (solfurea) e l’acqua ferrata. Gli abitanti, i luciani, la raccoglievano in giare di terracotta chiamate «mummare» e le commercializzavano in giro per la città nei «banchi dell’acqua» e persino nei paesi vicini attraverso le navi del loro porticciolo.

ALLE PENDICI del Monte Echia sopravvive una lapide del 1731 che reca un editto in cui si fa esplicito dono delle fonti alla popolazione, punendone l’accaparramento con «la pena di cinquanta ducati e sei mesi di carcere». Un legame identitario fortissimo messo in crisi dal colera del 1973. Da allora le fonti sono letteralmente scomparse, la cittadinanza le ha quasi del tutto dimenticate, ingoiate dalle trasformazioni urbanistiche e dallo sviluppo dei grandi alberghi. Dopo 50 anni, l’Unesco si è riunito a Napoli lo scorso novembre per discutere del rapporto tra eredità culturale, beni materiali e immateriali.

LE FONTI del Chiatamone ci raccontano i rapporti di forza reali. Se le sorgenti dell’acqua sulfurea sono state inglobate dal Palazzo della regione, dove ha sede la giunta, il Laboratorio architettura nomade si è messo sulle tracce dell’acqua ferrata trovando il luogo da cui sgorgava: un sito ipogeo, sottostante via Chiatamone, accessibile da una proprietà del comune indicata al foglio 201 – particella 22 del catasto di Napoli. Nei trattati dell’Ottocento veniva descritta come una sorgente di acqua bicarbonata di abbondante portata, frizzante, con alte percentuali di ferro, sgorgante a 16 gradi Celsius: «È limpida, di lieve odor pungente, di sapore razzente e ferrigno. Riesce ricostituente e tonica. Se ne fa molto uso in Napoli, massime dalle donne, e da più mescendola al vino. Si amministra per abluzioni ne’ prolassi dell’utero e per bagni nella incipiente rachitide».

DALL’UNITÀ D’ITALIA in poi la zona inizia a cambiare. Comincia la costruzione della colmata che altera il rapporto del quartiere con il mare, gli alberghi si impongono con nuove costruzioni di dimensioni maggiori e, a partire dai primi del Novecento, provano a privatizzare le sorgenti. Non riuscendoci, chiedono al comune di regolamentare l’approvvigionamento e il commercio delle mummare per non intralciare i loro affari. I luciani resistono. Resistono persino al podestà in epoca fascista, nel 1935 si appellano a Mussolini e, pur di non mollare le fonti, si dichiarano «sicuri di essere tenuti nella benevolenza essendo in massa militi e fascisti e mutilati italiani». In quegli anni circa 400 lavoratori erano coinvolti nel commercio delle mummare. Nel dopoguerra il braccio di ferro prosegue ma solo con il colera arriva il divieto di accesso: l’acqua ferrata sparisce dalla vita dei napoletani. Il Laboratorio architettura nomade ha ricostruito storia, particella catastale, ubicazione della fonte.

UN LAVORO che è servito alla Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio di Napoli come base per apporre lo scorso giugno il vincolo storico e demo-etnoantropologico alla sorgente di acqua ferrata di via Chiatamone. Nell’atto della Soprintendenza si legge: «Il colpo finale fu dato dall’errata convinzione che l’acqua sorgiva di Santa Lucia potesse avere un ruolo nella diffusione dell’epidemia di colera del 1973. Per quasi trent’anni, dunque, l’acqua ferrata fu soltanto un lontano ricordo, cancellato definitivamente dalla costruzione dell’Hotel Continental, proprio sull’antica sorgente». Nel 2000 il comune provò a recuperare l’acqua suffregna rimettendo in funzione le fontanelle che costeggiano il Maschio Angioino verso il Molosiglio ma la loro difficile gestione portò poi alla chiusura delle fontanelle.

TROVARE LA SORGENTE dell’acqua ferrata è stata un riscoperta. L’accesso è in un varco che collega via Partenope con via Chiatamone, stretto tra gli alberghi, i due ingressi chiusi da cancelli: lo spazio è occupato da un volume realizzato nel 1975 per favorire l’edificazione degli hotel. Una volta oltrepassato il cancello, i tecnici del comune hanno trovato un’apertura rettangolare nel calpestio che porta al di sotto della strada. Il livello ipogeo superiore è occupato da «vani ove sono allocati i gruppi elettrogeni così come l’impianto antincendio, griglie di aerazione, la centrale termica e altri locali tecnici al servizio della struttura alberghiera». A dirlo sono gli avvocati della Compagnia immobiliare alberghi Spa che ha in affitto i locali del comune, la Cia ha fatto ricorso al Tar contro il vincolo: al tribunale chiedono di separare i vani, lasciando la tutela solo a quelli sottostanti dove si trova la fonte. Tutelati, quindi, ma impossibili da raggiungere.

L’UNESCO a novembre si è riunita a Palazzo Reale per discutere di eredità culturale, il sindaco Manfredi ha commentato: «Poche città rappresentano meglio di Napoli la proficua interazione, stratificatasi nei secoli, tra patrimonio materiale e immateriale». E allora bisogna scegliere: gli interessi economici legati al turismo valgono la cancellazione delle storia etno-antropologica di una pezzo importante di città? Un vano di servizio con i condizionatori può bloccare il collegamento stradale tra l’antico scoglio di Megaride (con Castel dell’Ovo e il Borgo Marinari) con il Monte Echia e la collina di Pizzofalcone?

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