«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio.
Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino.

«È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza della Repubblica. Un’ultima notte romana e poi ad attenderlo ci sarà un volo per Buenos Aires via Francoforte.

Pablo, lo scudetto del Napoli è un momento storico che ovviamente non poteva sfuggire al tuo sguardo. Ma quando e perché hai deciso di fare il biglietto?
È stata una ispirazione. Quando ho capito che il Napoli avrebbe vinto e ho visto che l’ultima partita si sarebbe giocata in casa ho organizzato il tutto. C’è un altro elemento che ha messo in moto tutto questo.

Raccontacelo…
Questo elemento si chiama Diego Armando Maradona. Alla sua figura dobbiamo aggiungere due meravigliose casualità: le vittorie dell’Argentina ai mondiali di México ‘86 e Qatar 2022 e i successivi scudetti del Napoli nel 1987 e nel 2023. Non c’è causa-effetto tra le due cose, claro, ma c’è una tale bellezza in questa casualità che volevo osservare.

Quando hai iniziato a studiare la figura di Maradona?
Era il 1991, quando si stava per chiudere la sua parabola italiana. Ricordo che vidi in VHS un bellissimo documentario di fine anni ’80 sul primo scudetto del Napoli. Lo aveva girato Bernard Bloch, un regista francese e si intitolava Napoli corner. Nel mercato spagnolo era stato distribuito con il titolo Maradona y el Napoli. E poi lessi il Te Diegum, il volume curato da Vittorio Dini e Oscar Nicolaus. Nel corso dei miei studi in realtà, mi sono concentrato più sul Maradona nella sua relazione con la nazione argentina che con la città di Napoli.

Questo viaggio ti metterà in crisi adesso.
Ho detto a mia moglie che venire a Napoli in questo periodo è stata la miglior decisione presa nella mia vita accademica. E credo che sia anche una specie di coronamento. È qualcosa di molto forte.

Cosa è rimasto nei tuoi occhi?
La presenza continua, assoluta, debordante – metro per metro potremmo dire – della figura di Diego. Il murales dei Quartieri Spagnoli poi è impressionante. Ci sono murales a Buenos Aires, ma non sono luoghi di culto popolare – e commerciale – paragonabili a quello di Napoli. E poi le bandiere, le sciarpe, gli striscioni che festeggiano il terzo scudetto che includono l’immagine di Maradona. Questa presenza così forte non c’è a Buenos Aires e non c’è in tutta l’Argentina.

Come te lo spieghi?
Napoli è una città maradoniana. In Argentina non abbiamo città maradoniane anche se Maradona è il più grande simbolo nazional-popolare del Paese. Buenos Aires ha uno stadio intitolato a Diego, quello dell’Argentinos Juniors, ma futbolísticamente è una città divisa. Oltre a River Plate, San Lorenzo, Vélez e Huracán, abbiamo due squadre maradoniane: l’Argentinos e il Boca. La visibilità di Diego nella quotidianità napoletana e nel giorno della partita contro la Sampdoria mi ha impressionato. Vicino alle icone di Osimhen e Kvaratskhelia, lui c’era sempre.

Questo Napoli è un gruppo multietnico. C’è un solo argentino, Giovanni Simeone, e non ha un campione riconosciuto e carismatico come Maradona. Che idea ti sei fatto della squadra?
Tutti questi elementi giocano a favore del mito di Diego. Nessuno può sostituirlo simbolicamente.

Viviamo in un’epoca di iperproduzione iconica e mediatica. Facciamo un passo indietro. Torniamo agli anni ‘80. Che immagine arrivava in Argentina della Napoli di allora?
Abbiamo visto poco di quella squadra di cui però ricordo i due brasiliani, Careca e Alemão. Vedevamo a malapena i gol. Non c’erano speciali Tv. Qualcosa in più sui giornali, sulla rivista El Gráfico ma non dimentichiamo che Olé – il primo grande quotidiano sportivo argentino – è del 1996. Ciò che sapevamo di Maradona era più mitico che informativo. Stesso discorso per il periodo in cui Diego fu al Barcellona nei primi anni ’80. Non ricordo un’immagine vista allora. Poi abbiamo recuperato tutto, grazie a Youtube.

Cos’è la maradonologia?
Lo studio di uno dei più grandi calciatori della storia del calcio paragonabile solo a Pelé e Messi, ma soprattutto di una figura umana fuori dal comune, fenomenale, eccezionale e unica dal punto di vista politico, culturale e sociale. Per studio, intendo la possibilità di pensare, interpretare, comprendere un fenomeno.

Quali strumenti si possono utilizzare per studiarlo?
Tutti quelli che le scienze sociali mettono a disposizione. Fino a che era in vita era tutto più difficile, perché la sua biografia offriva continuamente nuovi elementi. La maradonologia ci obbliga ad una cosa però.

Quale?
A prendere distanza e a non lasciarsi coinvolgere affettivamente. Ci sono elementi della sua vita poi – il suo rapporto con le donne o con i figli, ad esempio, più che la droga e le vicende giudiziarie – che ci interrogano anche moralmente.

L’Argentina è terra di grandi uomini di letteratura che con il calcio sanno dialogare. Se pensiamo a grandi scrittori del passato, chi avresti visto bene camminare per le strade della Napoli di questa primavera?
Osvaldo Soriano, da gran bugiardo e grande narratore qual era, si sarebbe divertito molto. E poi, quel gran umorista di Roberto Fontanarrosa non sarebbe stato da meno.

Pablo, cosa metterai nella valigia del ritorno?
Qualche giorno fa a Napoli ho comprato due cose. Il libro della mia infanzia, Cuore di Edmondo De Amicis e la maglietta con la scritta «Chi ama non dimentica». Una frase che mi ha profondamente colpito.
In chiusura, torniamo ai Quartieri Spagnoli, torniamo a largo Maradona. Se chiudi gli occhi, cosa vedi, cosa senti?
Amor. Amore. Non c’è altra parola. Napoli amava Maradona. Napoli ama Maradona.