«Questo è il vantaggio delle città che han gusto insieme e ricchezza», chiosava con arguzia Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica della Italia, descrivendo l’abilità di Bergamo nel commissionare opere ad artisti forestieri quando si trovava in penuria di talenti autoctoni. Non sbagliava l’abate gesuita, se ancora oggi varcando la soglia di Santa Maria Maggiore, nel cuore della città alta, si penetra il raffinato scrigno di meraviglie che il Consorzio della Misericordia Maggiore (MIA) ha saputo comporre e conservare nei secoli. Qui, alzando gli occhi sulla parete di fondo della navata centrale, si incontra l’energia creativa tutta partenopea del Passaggio del Mar Rosso di Luca Giordano, potente propulsore della bellissima storia raccontata dalla mostra Napoli a Bergamo. Uno sguardo sul ’600 nella collezione De Vito e in città, all’Accademia Carrara fino al 1° settembre, a cura di Elena Fumagalli con Nadia Bastogi.

L’apprezzamento per l’opera, giunta a destinazione nel maggio 1682, innescò una decennale trattativa perché il maestro si trasferisse in città per completare la decorazione della navata centrale della chiesa, ma, come ricordava un secolo dopo il biografo degli artisti bergamaschi Francesco Maria Tassi, «il cielo non permise, che a noi toccasse sì avventurosa sorte», laddove il celestiale intervento va riferito a Re Carlo II, che nel 1692 chiamò il pittore a Madrid.

Napoli a Bergamo è, allora, innanzitutto la ricostruzione della «Giordanomania» diffusa in terra orobica tra Sei e Settecento, ben illustrata in mostra non solo con una proiezione dedicata all’inamovibile tela di Santa Maria Maggiore, ma anche attraverso inediti affondi dedicati ad altre opere. Di grande interesse la sezione sulla fortuna bergamasca della sublime Deposizione compiuta da Giordano per Santa Maria del Pianto a Venezia (oggi alle Gallerie dell’Accademia), di cui l’esposizione presenta copie o rielaborazioni. Ad esempio, nel talvolta trascurato rapporto di scambio tra pittura e scultura, è significativa la scelta della bottega di Andrea Fantoni di ispirarsi proprio alla grande tela veneziana nel realizzare, nel primo decennio del XVIII secolo, i due bozzetti in terracotta (dalla Fondazione Fantoni di Rovetta) da proporre ai committenti della pala marmorea per l’altare della Beata Vergine della Pietà nel Duomo cittadino. Non solo maestro del colore, dunque, Giordano è inteso quale carta vincente per composizione e disposizione da parte della bottega di scultori forse più radicata in città e, proprio per questo, evidentemente conscia del gusto della committenza.

La frustrata impresa di attirare Giordano a Bergamo era stata affidata alla mediazione del mercante Simone Giogalli, con cui il pittore era entrato in contatto durante il suo soggiorno veneziano alla metà degli anni sessanta del secolo. Non una coppia, difatti, Bergamo e Napoli, bensì i due lati di un triangolo che comprendeva l’adriatica Dominante, dove le opere e gli artisti sbarcavano risalendo la costa orientale italiana dalla Puglia. Fu proprio Giogalli a individuare il ripiego ideale al forfait di Giordano in Nicola Malinconico, anch’egli napoletano ed emulo del maestro. Nel 1693 l’artista giunse in città, in un parallelismo con quanto era accaduto circa trent’anni prima, quando i bergamaschi che ambivano a Pietro da Cortona per la decorazione della navata destra della medesima chiesa si erano dovuti accontentare dell’allievo Ciro Ferri. Attingendo a modelli e presentando tele scovate in luoghi minori, l’esposizione propone un focus dedicato proprio a Malinconico. Il periodo bergamasco è a oggi, anche grazie a questa mostra e al suo catalogo (Skira), la parte meglio indagata del percorso dell’artista. Si palesa dalle sue opere la peculiare abilità di osservare le soluzioni adottate dai grandi maestri e di rielaborarle secondo le proprie necessità. Così sembra accadere anche, appunto, con Ciro Ferri, che il giovane partenopeo dovette scrutare, e molto, durante i mesi passati in suolo orobico, come si osserva nella grande pala d’altare raffigurante il Martirio di Sant’Alessandro, lasciata nel vicino Duomo e presente in mostra tramite riproduzione.

Tra i meriti dell’esposizione, oltre ai diversi restauri che hanno restituito leggibilità alle opere esibite, c’è quello di costituire un volano per una visita di quelle rimaste in situ, a conferma della vocazione dell’Accademia di motore culturale per la città, in piena sintonia con lo spirito di Giacomo Carrara, sulle cui orme si è conformata nei secoli come museo del collezionismo italiano.

Proprio grazie all’afflato di un ben più recente collezionista, Giuseppe De Vito, la mostra offre una prima, vasta sezione funzionale a illustrare al pubblico lo svolgimento della pittura napoletana del Seicento. Un avvio animato da spirito didattico che si traduce in un felice appagamento per gli occhi, grazie appunto ai prestiti della Fondazione De Vito che portano a Bergamo, tra gli altri, Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione, Jusepe de Ribera, il Maestro degli Annunci ai Pastori e Mattia Preti, proponendo un ideale passaggio di consegne tra il suolo lombardo che ha dato i natali al naturalismo caravaggesco e le sincere terre del sud, dove questo impeto è addivenuto ad altre forme.

Quella che sembrava una storia interrotta tra Bergamo e Luca Giordano ebbe poi un lieto fine, ancora per tramite della Serenissima. Punta di diamante dell’esposizione è infatti la sala che raduna le quattro splendide tele comprate per la parrocchiale di Sant’Evasio a Pedrengo (BG) nel 1738. In quell’anno una vedova Contarini di Venezia decise di alienare la collezione di famiglia in terra bergamasca, abbastanza connessa da favorire il mercato, ma sufficientemente distante da salvaguardarle la reputazione. Arrivarono così in provincia le scene di martirio databili in prossimità del proficuo periodo veneziano di Giordano, dove il pennello intriso di colorismo e verità restituisce in forme altissime la dolorosa testimonianza di fede degli apostoli Andrea, Bartolomeo, Pietro e Paolo.
Testimonianza di fede cui va un grande plauso è anche quella nella ricerca comunicata al grande pubblico, specie quando strettamente connessa al territorio, benché ne includa uno lontano. E lontani, per nostra gioia, sono i tempi in cui il nome di Napoli a Bergamo evocava soprattutto beceri cori da stadio, malamente trafiggendo i cuori di immigrati di prima, seconda e terza generazione. Gli stessi che oggi, è certo, trepidano di orgoglio ripercorrendo, nelle sale della Carrara, quel viadotto artistico così antico e pregiato: un ponte che unisce come sempre fa la cultura, quando è tale.