Naomi Oreskes oggi è una stimata storica della scienza statunitense con una cattedra all’università di Harvard. In questa veste, domenica 13 novembre interverrà alla Biennale Tecnologia in programma a Torino sul tema «Perché fidarsi della scienza?». Ma i primi passi nel mondo del lavoro li ha mossi tra cave e miniere nei primi anni ’80.

IL SUO PRIMO IMPIEGO citato nel curriculum è, infatti, quello di geologa. Dopo la laurea alla Royal School of Mines di Londra, in uno dei suoi primi colloqui di lavoro la giovane Oreskes era stata chiara: «Voglio trovare un giacimento minerario». Fu così che la Western Mining Corporation la spedì in Australia alla ricerca di uranio. Solo dopo quell’esperienza entrò all’università di Stanford.
Studiare i minerali radioattivi non le ha impedito di analizzare il rapporto tra scienza e società, anzi. La teoria della deriva dei continenti di Alfred Wegener, accettata dopo molte resistenze da parte dei geologi all’inizio del novecento, è un ottimo caso di studio su come si forma il consenso scientifico. Negli anni ’90, Oreskes era tra i consulenti del governo Usa sul progetto di un enorme deposito di scorie nucleari sotto la Yucca Mountain (Nevada). Invece della montagna, a spaccarsi furono l’opinione pubblica e la comunità scientifica. Oggi il progetto è ancora fermo.

DA ALLORA, si occupa soprattutto di come gli scienziati si mettono d’accordo tra loro e con i cittadini. Ha studiato i legami tra le lobby industriali e gli scienziati negazionisti del cambiamento climatico, spesso gli stessi che trent’anni prima difendevano l’industria del tabacco. Il bestseller che ne ha tratto con Eric Conway, Mercanti di dubbi (ed. Ambiente, 2019), ha persino ispirato un film.
Perché fidarsi della scienza? è anche il titolo di un utilissimo saggio tradotto nel 2020 da Bollati Boringhieri.
Il tema, soprattutto dopo la pandemia, è particolarmente attuale e investe il ruolo sociale degli esperti: per conquistare la fiducia dei cittadini hanno puntato tutto sull’apparire oggettivi, e quindi neutrali. Secondo Oreskes, non è stata la scelta giusta.

«GLI SCIENZIATI si sforzano di essere oggettivi, ma l’oggettività non equivale alla neutralità – spiega – Gran parte del lavoro scientifico ha conseguenze etiche, economiche o sociali. Se sosteniamo che ciò non è vero, risultiamo poco sinceri o addirittura disonesti». E addio fiducia. Va smontata l’idea che le passioni siano incompatibili con la scienza. «Nel lavoro di ricerca trasportiamo i nostri ideali e i nostri valori, e questo non è necessariamente un male», racconta la storica.
«Molti filosofi della scienza hanno dimostrato che dagli ideali possono nascere ricerche di alta qualità. Nella mia professione ho spesso sostenuto che una comunità con valori più eterogenei abbia maggiore probabilità di cogliere tutta la complessità di un problema, rispetto a una comunità più omogenea».
Un esempio? «Quando gli psichiatri presero sul serio l’esperienza delle donne si accorsero correttamente che la pillola contraccettiva poteva causare depressione. I ginecologi, che invece si concentravano solo sulla prevenzione delle gravidanze indesiderate, avevano sottovalutato questo dato». Il femminismo ha contribuito a smontare l’idea di una scienza neutrale. «Le filosofe della scienza femministe sono state all’avanguardia nel capire e analizzare i valori insiti nella scienz -» sostiene ancora Oreskes – Sono loro che hanno scoperto l’importanza della diversità epistemica ed etica nella scienza, che io condivido».

QUALCHE LETTORE troverà, non a torto, echi di un dibattito sulla non neutralità della scienza che Marcello Cini ha animato a lungo su queste pagine. Anche lui sosteneva la necessità di rendere espliciti i valori che guidano la ricerca scientifica per smascherarne la presunta neutralità. Ma senza cadere nel cosiddetto «lisenkysmo», dall’agronomo staliniano Trofim Lysenko che a lungo sostenne e fece applicare ai contadini sovietici una teoria biologica anti-genetica clamorosamente sbagliata.
Se gli scienziati rendono espliciti i loro valori di riferimento, ogni gruppo sociale potrebbe scegliersi i «suoi» esperti per affinità ideologica, come fece Stalin con Lysenko e i negazionisti sul clima. È un rischio? «Certo, ma la vita è piena di rischi – scherza Oreskes – e ogni cambiamento impone di assumersene. Ma la scienza possiede meccanismi collaudati per comunicare opinioni contraddittorie, ascoltarsi a vicenda e provare a trovare un accordo. All’inizio del Novecento, proprio questo era l’argomento usato per sostenere i benefici dell’educazione scientifica della cittadinanza. Penso che ciò sia ancora vero, nonostante oggi si investa troppo sulla specializzazione tecnica. Credo che insegnare come la scienza lavora sia altrettanto importante che insegnare quello che gli scienziati sanno».