Nancy Genn, “Oriental Magnolia”, 2003

Spoleto ha un rapporto privilegiato con l’arte americana, sin da quel 1958 in cui fu istituito il Festival dei due mondi, nato per l’appunto con l’intento di gettare, in piena guerra fredda culturale, un ponte tra Europa e Stati Uniti, e contrastare a colpi di astrattismo, action painting e pop americano le tentazioni socialiste-realiste del blocco sovietico. La città, e la Galleria d’Arte Moderna Giovanni Carandente in Palazzo Collicola, sono perciò disseminate di segni della presenza di Sol Lewitt, Beverly Pepper, David Smith, Alexander Calder, tra gli altri. Le cronache d’epoca narrano anche del passaggio di Rauschenberg, il cui letto, Bed appunto, il suo primo combine painting, venne censurato proprio a Spoleto in occasione del primo Festival. Non sorprende dunque ritrovare nelle sale di Palazzo Collicola le opere dell’artista californiana Nancy Genn, classe 1929, nell’ambito della mostra Nancy Genn Beyond the Grid, curata da Francesca Valente e visitabile sino al 31 maggio.
La griglia, al cui superamento si allude nel titolo, è quella definita da Rosalind Krauss in un saggio epocale del 1978: una sorta di paradigma mitico, dispositivo formale e insieme simbolico, che sembrava aver informato gran parte delle ricerche di arte moderna durante il XX secolo, inconsapevolmente o meno. La critica statunitense, in particolare, individuava una sfuggente oscillazione della griglia sul crinale tra materia e spirito, scrivendo che «il potere mitico della griglia consiste nel convincerci che siamo sul terreno del materialismo (o talvolta della scienza, o della logica), mentre ci fa contemporaneamente entrare nel campo della fede (o dell’illusione, o della finzione)».
E in effetti, lungo tutta la ricerca di Nancy Genn, congruamente rappresentata in mostra, sembra di assistere a una continua tensione tra un aspetto più irrazionale, legato ora al gesto e all’automatismo, ora alle trame liquide e imprevedibili di certi lavori, e il tentativo di irreggimentarlo in una sorta di matrice geometrica, che potremmo, con l’approvazione della Krauss, chiamare appunto «griglia». Tuttavia, si avverte parimenti nella sua ricerca un’insofferenza all’elaborazione di una codifica formale troppo definitiva e rigida, a favore di una sperimentazione più spregiudicata di tecniche e forme, con l’uso alternato di diversi materiali e un’oscillazione continua tra il richiamo organico dell’informale e il cedimento alle promesse di ordine di un astrattismo più geometrico.
Vediamo rappresentate in mostra quasi tutte le vie creative esplorate dall’artista nei campi della pittura, della scultura e delle opere su carta, dai frenetici brulichii di segni degli anni sessanta, così affini agli white writings di Mark Tobey e che valsero alla Genn il plauso di Michel Tapié e la sua inclusione in uno dei testi teorici cardinali dell’informale, Morphologie Autre, scritto dal critico francese nel 1960, fino ai lavori degli ultimi decenni in matita e caseina su carta, le serie Rainbars, Waterfalls e The Shape of Water, dove a colpi di riverberi intermittenti e pulsanti, talvolta lattigginosi, sono rievocate visioni, forse ricordi, di acqua e di luce. Ed è certamente la luce una chiave di interpretazione privilegiata delle opere della Genn, apparentemente secreta dalle profondità dei supporti, carta e tela, attraverso stratificazioni di colori diluiti e spansi quasi fossero inchiostri o acquerelli. C’è in questo una lontana memoria impressionista, che già il critico Herschel Chipp aveva individuato, scrivendo su un numero di «ARTnews» del 1958 su una giovanile natura morta dell’artista, definita «a personal variation of the Impressionist touch».
D’altra parte è stata la stessa artista a confidare come molta ispirazione per le sue composizioni astratte sia venuta dal clima e dal paesaggio della natia San Francisco, la sua baia dominata da acqua e nebbia, sia sul piano della luce, sia su quello dell’incedere calligrafico insistito in alcuni lavori, i cui andamenti ritmici, flessuosi, nervosi, hanno appunto origine, per lei, dalle linearità suggerite da correnti e onde marine attentamente osservate.
Anche quando il colore costituisce il principale attore dell’opera, la linea è spesso presente, magari nascosta da quello e riconoscibile solo a uno sguardo ravvicinato, com’è il caso dei più recenti lavori della serie Gather, in cui nervosi disegni a grafite sembrano voler inchiodare l’effimera vacuità di un colore effuso per forme circolari. Persino le sculture in mostra, come Expanding Oval (2008) Continuum (2023), sembrano dichiarare esplicitamente una preoccupazione lineare e grafica.
La riflessione sul confine tra linea e grafia sembra d’altra parte essere un’altra preoccupazione nella ricerca della Genn, e appaiono sovente nelle sue opere inserti che rievocano frammenti di pagine fittamente vergate – come in Roma #83 (1998), parte di una serie di opere su carta in cui l’artista prova a restituire il genius loci di diverse situazioni ambientali – o brandelli di mappe altimetriche affollate di circonvoluzioni lineari – se ne riconoscono camuffati in Thais #21 (2005) e in Rainbars Scroll #6 (2011). E parlando di calligrafia, il pensiero corre inesorabilmente all’Oriente, al Giappone specialmente, con il quale l’ambiente dell’arte astratta e informale intessé sempre proficui commerci, a cominciare proprio dai già citati Tobey e Tapié, al quale ultimo si deve la conoscenza in Occidente del gruppo giapponese Gutai con le sue ricerche al confine tra gesto, calligrafia e informale.
Al Giappone la Genn si rivolse in modo prepotente intorno alla fine degli anni settanta, quando, volendo saggiare nuove vie espressive non limitate alla bidimensionalità della pittura e della grafica, né alla tridimensionalità della scultura, praticò e approfondì la tradizione giapponese della carta washi, carta di gelso fatta a mano, sviluppando poi un suo proprio metodo di strappo. La carta non era più per la Genn semplice supporto per il segno, ma diveniva materia plastica con specifiche sue caratteristiche offrendo con la sua spessa fibrosità inedite potenzialità espressive sul piano ottico quanto su quello tattile, e aprendo a nuove dinamiche di trasmissione, di assorbimento e modulazione della luce, pienamente esplorate nelle opere realizzate tra gli anni settanta e ottanta.
Osservando questi lavori in prossimità, ci si accorge che Genn strappa la carta seguendo linee dritte e ordinate, ma lascia che le fibre evidenzino disordinatamente queste lacerazioni, quasi si trattasse delle slabbrature di una ferita, ottenendo una profondità tattile in dialogo con quella ottica dei colori di cui la carta è imbibita. La luce pare trasudare tra le imperfezioni minutamente granulari del materiale.
E chissà che questo interesse per la carta giapponese come vettore di luce non fosse stato indotto nella Genn dalla lettura di Libro d’ombra di Tanizaki Jun’ichiro, testo cardinale sull’estetica della luce in Giappone, la cui prima traduzione in inglese, con il titolo In Praise of Shadows, fu pubblicata nel 1977. «Io posso dire soltanto che la carta occidentale altro non mi trasmette che l’impulso a usarla», rifletteva Tanizaki nel suo libro, «se, invece, mi chino a osservare una carta cinese, o giapponese, a poco a poco mi sento invaso dalla quiete e dal tepore. La bianchezza stessa è diversa. Se la carta occidentale sembra respingere la luce, quella cinese, o giapponese, la beve lentamente, e la sua morbida superficie è simile al manto della prima neve. È una carta cedevole al tatto, e che si lascia piegare senza rumore. È placida, delicata, leggermente umida. Somiglia alle foglie degli alberi».