«Se vuoi la storia breve allora te la faccio breve: sono nato in Artsakh, a Martakert, 70 anni fa e morirò a Martakert prima di vedere una bandiera azera sventolare sulla mia terra. Amen». Anton non ne può più, intorno a lui diverse donne piangono e urlano e i telefoni squillano in continuazione. Intorno alle 19 una pompa di benzina è esplosa a Stepanakert.Si parla di 100 morti, il piano terra dell’hotel sembra diventato un’unità di crisi.

«COSÌ È TROPPO» dice un’anziana alla figlia. Anton continua, imperturbabile, «nel 1918 il Kaiser Francesco lasciò che i turchi…». Lo interrompo, provo a spiegare che devo andare a scrivere, mi chiede 30 secondi. «Durante il genocidio in molti sapevano e si sono voltati dall’altra parte. Ora tutti sapete cosa sta succedendo, in Europa, negli Stati uniti, non lasciate che accada di nuovo». Quasi piange, ammesso che su quel volto solcato di rughe come il cuoio possano scendere lacrime. Un’anziana picchia un bimbo (forse il nipote) sul collo e lo porta via, non deve sentire. Qualcuno è morto, è confermato.

Siamo a Goris, una cittadina di montagna fredda e ordinata, con le casette di mattoni e i tetti spioventi nel mezzo di un paesaggio mozzafiato spesso avvolto da una nebbia fittissima. Da due giorni automobili e furgoni carichi di civili continuano ad arrivare al confine sud-orientale armeno, a pochi chilometri da qui. «Partono con solo ciò che hanno addosso, a volte non hanno neanche le scarpe, vengono in ciabatte e con le coperte intorno» racconta un volontario della Croce rossa locale.

A KORIDZOR, venti minuti più a est, hanno approntato una tendopoli per il primo filtraggio. Poi i civili si spostano a Goris, si registrano e generalmente si spostano verso altre città, per raggiungere i parenti. Chi non ha nessuno resta qui, nel teatro cittadino adibito a centro umanitario, negli hotel, attraversati di corsa da bambini in ciabatte, nelle case di accoglienza dalle cui finestre si intravedono gli sguardi spauriti. Oltre 5.500 civili in due giorni, ma per ora la situazione si direbbe sotto controllo. Ma «il flusso è in aumento» spiega un funzionario dell’Onu impegnato in una missione umanitaria in loco. «Prima dell’attacco di giovedì scorso» continua «in Artsakh c’erano 120 mila persone, per ora quindi i profughi sono relativamente pochi».

«RESTIAMO ai nostri posti» dice Artur Hovhannisyan, rappresentante del fu ministero degli Esteri dell’Artsakh, «stiamo lavorando 24 ore su 24 per garantire la salvaguardia dei civili». Ma cosa sarà del suo governo? «Non lo so, per ora la nostra preoccupazione sono i civili». Gli stessi che continuano, stando alle testimonianze online, a morire e a subire abusi. «Si stanno diffondendo le voci di torture da parte delle forze azere, state raccogliendo testimonianze, avete già delle prove?». «Siamo a conoscenza di queste denunce, il Difensore civico dell’Artsakh presso l’Onu se ne sta occupando». «Ma cosa farete con chi non vuole andarsene?». I suo volto si fa cupo, arriva un autobus per trasportare i profughi e tacciamo tutti. Poi riprende, come tornando da un’altra dimensione, «si vedrà». Non lo sa, non sembra che lo sappia nessuno qui.

Su Stepanakert, la capitale della Repubblica dell’Artsakh, l’entità separatista filo-armena del Nagorno-Karabakh, continuano a cadere le munizioni azere. Molti villaggi nelle vicinanze sono scollegati dal resto del mondo. L’ex sindaco della minuscola Pirdjamal, che ci concesse un’intervista nel 2020 appena terminata la guerra, e che aveva deciso di difendere il suo campo di melograni nonostante i nuovi schieramenti avessero portato le truppe di Baku a meno di 2 km, è morto. Quando l’attacco è iniziato il punto dove si trovava la sua casa è stato tra i primi a essere investito dal fuoco nemico. Come lui almeno altre 200 persone, scrive la Caritas, insieme a oltre 505 feriti, tra cui decine di bambini.

È UNA TREGUA fragile e violenta quella tra l’esercito filo-armeno dell’Artsakh e le truppe regolari dell’Azerbaigian. L’incertezza regna sovrana e si sovrappone alla stanchezza di mesi di embargo. Si sospetta che sia per questo che la pompa di benzina è esplosa: la fila interminabile di auto in cerca di un po’ di carburante per scappare ha causato un incidente. Vittime della paura, vittime della guerra senza requie che da 30 anni funesta questa regione.

E non è finita, ne sono convinti quasi tutti. «Guarda» dice Anna, una volontaria, «laggiù c’è il confine». «Syunik?» chiediamo. «Aliyev oggi l’ha detto di nuovo, è solo questione di tempo». Infatti, ieri il presidente azero Aliyev ha incontrato ufficialmente il suo principale alleato, il leader turco Erdogan, a poca distanza dal confine con l’Armenia. Aliyev ha chiamato la regione armena di Syunik «Zangezur occidentale», dal nome del corridoio che permetterebbe ad Azerbaigian e Turchia di riunirsi, e ha aggiunto: «Dare la regione di Syunik all’Armenia fu un errore di Stalin, una decisione priva di logica, storicamente questa appartiene senza dubbio all’Azerbaigian». Non è la prima volta che Aliyev lo dice, è vero, ma stavolta fa più paura. Anche per questo in Armenia tutti si pongono due domande: succederà davvero? E cosa farà la Russia?