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Nagorno-Karabach, una vecchia guerra dentro le nuove crisi del Vicino Oriente

Nagorno-Karabach, una vecchia guerra dentro le nuove crisi del Vicino Oriente

Caucaso Uscito dal congelatore, l'antico conflitto tra armeni e azeri va ad inserirsi nel quadro della crisi mediorientale, nelle tensioni religiose ed etniche di quella parte del mondo e nello scontro tra Turchia e Russia. Sullo sfondo ci sono i forti interessi economici legati al Southern Gas Corridor, un gasdotto da 45 miliardi di dollari

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 5 aprile 2016

Il nuovo conflitto tra Armenia e Azerbaijan, per il controllo del Nagorno-Karabach (N-K), riemerge da un passato lontano, che ha fatto 30mila morti, 80mila feriti e centinaia di migliaia di profughi. E ora, uscito dal congelatore, va ad inserirsi nel quadro della crisi mediorientale, nelle tensioni etniche e religiose di quella parte del mondo e nello scontro tra Turchia e Russia. Proprio per questa ragione i nuovi combattimenti tra separatisti armeni appoggiati da Yerevan e le truppe azere – che hanno già provocato decine di morti e feriti, anche civili – rischiano di allargare l’incendio nel Vicino Oriente. Un “attore” è già entrato in scena: il leader turco Erdogan che ha espresso appoggio totale all’Azerbaijan . Il Nagorno-Karabakh «un giorno tornerà certamente al suo padrone legittimo…la Turchia è a fianco dell’Azerbaijian», ha proclamato il sultano di Ankara. L’Iran tifa in silenzio per i separatisti armeni ma non intende lasciarsi coinvolgere, tenendo conto che milioni dei suoi abitanti sono di origine azera. Stesso discorso vale per la Russia che pure sostiene le ragioni armene. Putin punta a spegnere questo nuovo focolaio di tensione che si è sprigionato mentre è impegnato militarmente in Siria e deve tenere a bada le ambizioni di Ankara. Gli Usa si dicono allarmati ma non faranno la voce grossa con gli alleati azeri, troppo importanti per ragioni strategiche. Non è destinato a cambiare le carte in tavola l’appello lanciato ieri dal segretario di stato Kerry assieme al ministro degli esteri russo Lavrov per la cessazione immediata delle ostilità. E’ cauta la Georgia, timorosa che il conflitto possa alimentare altre pulsioni separatiste nella regione, a tutto vantaggio di Mosca.

Il Nagorno-Karabakh è una regione montagnosa, con una larga maggioranza di cristiani armeni, che in era sovietica, per decisione dello stesso Stalin, fu assegnata all’Azerbaijan (a maggioranza islamica). Gli scontri sono andati avanti per decenni fino ad aggravarsi durante l’era Gorbachev, quando le aperture decise dal leader sovietico furono di fatto il detonatore di conflitti etnici e religiosi rimasti sopiti per lungo tempo nel Caucaso e nelle repubbliche meridionali dell’Urss. La guerra tra Armenia e Azerbaijan fu totale tra il 1992 e il 1994, dopo la proclamazione di indipendenza dei N-K fatta dai separatisti armeni ed è stata segnata da pogrom commessi dall’una e dall’altra parte e dall’espulsione di decine di migliaia di persone dalle loro città. La tregua precaria – sulla quale doveva vigilare il Gruppo di Minsk creato dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa – è stata violata tante volte nei passati 22 anni ma mai lo scontro aveva raggiunto questo livello, al punto da far temere l’inizio di nuovo e più devastante conflitto militare. Il presidente armeno Serzh Sargsian, come coloro lo hanno preceduto, sa che il consenso in patria è strettamente legato al mantenimento del controllo del N-K e ha annunciato che se le ostilità nella regione si intensificheranno, Yerevan riconoscerà in via definitiva l’indipendenza della regione. Sarebbe il via libera alla nuova guerra. Da parte sua il presidente azero Ilham Aliyev fa i conti con le difficoltà causate dal brusco calo del prezzo del petrolio, la principale risorsa del Paese. Perciò rilancia la questione del N-K “occupato” per tenere lontana l’attenzione della sua gente dalla crisi economica e finanziaria.

Fare il punto della situazione sul terreno è arduo. Le due parti, che si accusano a vicenda di aver violato il cessate il fuoco, diffondono comunicati in cui esaltano i propri (presunti) successi militari e le sconfitte dell’avversario. L’impressione però è che le forze armate azere siano superiori per tecnologia e potenza di fuoco rispetto a quelle dei separatisti e dell’Armenia. Se durante la guerra nel 1994 gli armeni furono in grado di respingere tutte le offensive lanciate dall’Azerbaijan per riconquistare il N-K che si era proclamato indipendente, questa volta Baku sembra aver rovesciato i rapporti di forza. L’Azerbaijan nei passati 22 anni ha speso molti miliardi di dollari per ammodernare e rafforzare le sue forze armate. Un programma ampio realizzato grazie anche alle relazioni speciali, dietro le quinte, che Aliyev mantiene con Israele. Tel Aviv ha addestrato le truppe speciali azere e fornito, con un accordo da 1,6 miliardi di dollari, armamenti dell’ultima generazione, inclusi i droni che Baku usa in questi giorni. Qualche anno fa la nota rivista Foreign Policy rivelò che l’Azerbaijan aveva messo a disposizione di Israele alcune basi aeree abbandonate, offrendo così a Tel Aviv la possibilità di attaccare con facilità le centrali atomiche iraniane.

Sullo sfondo dei nuovi combattimenti tra armeni e azeri ci sono i forti interessi economici legati al Southern Gas Corridor, un gasdotto da 45 miliardi di dollari che a partire dal 2019 porterà dal Mar Caspio il gas azero verso l’Europa, passando per sette Paesi. Un progetto che gli Stati Uniti ritengono fondamentale per ridurre la dipendenza occidentale dai giacimenti russi.

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