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Nadine Gordimer, lo strato segreto del mondo

Nadine Gordimer, lo strato segreto del mondoNadine Gordimer

Narrativa sudafricana "Il saccheggio", dieci racconti allegorici della smania di possesso del dopo apartheid

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 20 marzo 2016

In un’intervista a Michael Skafidas del 2007, l’ultraottuagenaria Nadine Gordimer definiva la globalizzazione come «una bella parola per un ennesimo grande patto commerciale». E continuava: «sembra che il materialismo abbia conquistato tutto. In Sudafrica molti eroi della liberazione si sono resi ridicoli perché la moglie voleva guidare una Mercedes! … E agli eroi della liberazione che entrano al governo o assumono importanti ruoli istituzionali si perdona ogni cosa». Quattro anni prima di questa intervista usciva l’ultima raccolta di racconti della scrittrice sudafricana, Loot and Other Stories, che Feltrinelli pubblica ora col titolo Il saccheggio (traduzione di Sara Cicala, pp. 217, euro 18,00).
In un tempo mitico e altresì inquietantemente familiare, un violentissimo terremoto provoca l’inclinarsi di un’intera piattaforma continentale e costringe l’oceano a ritirarsi.

Il ritrarsi delle acque porta alla luce «lo strato più segreto del nostro mondo» e, con esso, «lo sguardo strabiliato» dei suoi abitanti che si abbandonano alla gioia orgiastica di disseppellire dalla melma tutto «quello che non sapevano di volere». Nel marasma di questo sea-change of imagination (il testo inglese contiene l’inconfondibile eco della Tempesta shakespeariana, che la traduzione non sembra riconoscere e che meriterebbe almeno una nota) un pensionato benestante, il quale possiede già «un sacco di cose» e conduce una vita «beatamente libera da emozioni», si distingue dagli altri saccheggiatori perché cerca soltanto un oggetto. Non appena lo trova e se ne impossessa – forse uno specchio «imprigionato tra conchiglie di madreperla e merlature di corallo rosso» – l’uomo viene travolto dall’immensa ondata di risacca che lo fa sprofondare cinque leghe (full fathom five) nelle profondità dell’oceano, esattamente come il vecchio re di Napoli inghiottito dalla tempesta inscenata da Prospero.

Al contrario di quanto avviene nella favola shakesperiana, però, nel racconto di Nadine Gordimer nessun Ariele arriva a consolare i sopravvissuti con promesse di preziose metamorfosi. Così, il corpo dell’anziano uomo di regime che rincorreva la propria immagine, si dissolve insieme ai corpi di tutti i pirati inghiottiti in secoli di traversate e dei tanti cadaveri scaraventati in mare dagli aerei durante una dittatura desiderosa di cancellarne le tracce.

Il saccheggio, dunque, vale come allegoria della smania acquisitiva che caratterizza la nuova società sudafricana. Al tempo stesso, grazie alla mediazione shakespeariana, il saccheggio è anche emblema di una letteratura inclusiva e dialogica, che può farsi capitale culturale di un paese affrancato da uno dei peggiori totalitarismi del XIX secolo in quanto recupera e rifunzionalizza universi letterari altri e lontani, che pure le appartengono. Da qui l’importanza, per un’edizione rivolta a un pubblico presumibilmente poco interno al mondo anglofono, di esplicitare i nessi con un testo fondativo della teoria e della pratica del postcolonialismo qual è La tempesta.

All’inizio del millennio Nadine Gordimer cerca soluzioni narrative capaci di coniugare l’esigenza di una cultura letteraria specificamente sudafriana con l’integrazione nella repubblica mondiale delle lettere. Perciò, oltre a Shakespeare, questi dieci racconti tessono un suggestivo dialogo con Yeats e con quella forma di misticismo laico nella quale, agli albori del XIX secolo, il poeta irlandese aveva identificato la chiave di una letteratura moderna non subalterna a quella inglese.

Attraverso questo misticismo del tutto contingente e dalle tonalità esotiche, Nadine Gordimer esplora i percorsi di un accadere ciclico e de-individualizzato, alternativo a quella che Stephen Clingman ha chiamato la «citazione sociale», che le è certamente più familiare.

Ecco allora che, dopo il sea-change reimmaginato dal racconto d’esordio, il motivo della metamorfosi si riaffaccia in tutti gli altri racconti, e si ripresenta in una forma che si direbbe karmica, ossia come un ritornare di esperienze e memorie di spazi dislocati e irriconoscibili che attendono di essere revitalizzati. «Come da protocollo» è la storia di una villa dalle «aliene» sembianze californiane, costruita da un alto funzionario alle Politiche Territoriali nei pressi di una miniera, e tornata a vivere nel momento in cui un uomo e una donna, che nel vecchio Sudafrica si sarebbero trovati su fronti inconciliabili, la utilizzano per i loro incontri amorosi.

Nel racconto intitolato In visita da George, una coppia di studiosi sudafricani in visita a Londra si mette alla ricerca di un appartamento a Kensington appartenuto a un vecchio amico comunista. L’uomo è morto, la casa è abitata da qualcun altro e lo scenario londinese appare alla narratrice come un luogo di esilio nel déjà-vu della storia: «c’era così tanta gente da così tante epoche; così tanti periodi a venirci incontro da quella strada di Londra; spettatori di Shakespeare, veterani di Waterloo, modi di un passato in bombetta, avanzata in ciabatte della controimmigrazione d’Oriente dell’epoca coloniale; volti neri che potrebbero essere indelebili ricordi lasciati alle spalle dai nostri esiliati politici al rientro in Africa».
In «Somiglianze», la povertà abietta, refluita dai ghetti delle township nere, reclama un posto nel cuore di un campus universitario, attirando magneticamente a sé studenti e professori che ne assumono gradualmente abiti, posture, odori e derive esistenziali.

Alla fine il campus viene sgombrato e gli zombie neri spariscono: «ma sono sempre con noi. Semplicemente altrove». In «Omaggio», la violenza del rapporto tra oppressori e oppressi è confusa e disidentificata, e assume valenze metaforiche ad ampio raggio. Un uomo pagato per uccidere un politico è costretto a un’esistenza raminga nel sottobosco urbano di paesi estranei e inospitali. Eliminando ogni marcatore di identità personale e geografica e mantenendo solo i pronomi, la scrittura costruisce un senso di profondo straniamento, e di altrettanta solidarietà, rispetto all’anonimo assassino, che diventa il simbolo delle migliaia di migranti alla deriva, ignari di quale sarà la loro destinazione successiva.
In un saggio autobiografico intitolato Home and Intimacy, lo scrittore sudafricano Njambulo Ndebele riflette su come, nel nuovo Sudafrica, l’idea di casa sia stata forzatamente scissa da quella di intimità, a causa dei nuovi assetti urbanistici finalizzati a cancellare le tracce del racial divide. Lo smantellamento delle orribili township nere ha significato per molti sudafricani la perdita delle radici domestiche. «E cosa abbiamo guadagnato dal voto? Certamente la nostra voce. La nostra parola. Ci restano da riguadagnare le nostre abitazioni, i nostri quartieri. Dobbiamo tornare a sentirci a casa».

Ebbene, nel racconto finale intitolato «Karma», Nadine Gordimer spende le sue ultime parole proprio sul tema dell’abitare, che rappresenta il filo conduttore dell’intera raccolta. A narrare è un’anima che si è reincarnata in numerosi corpi, abitando una casa in cui si sono avvicendate storie diverse, rimaste tutte inconcluse e sospese: non a caso un’antica mansion dal nome inconfondibilmente coloniale di Cape Dutch. Reinterpretando il karma come etica di «un continuo interrogarsi» sul presente in relazione al passato, che non implica castighi o ricompense e che colloca l’individuo «tra le sue due eternità, che sono quelle/della razza e dell’anima» (così scriveva Yeats in Ai piedi del Ben Bulben), Gordimer tocca il punto estremo nell’esplorazione di uno stile narrativo che, «come l’aoristo», sia capace di «esprimere un’azione passata senza indicarne il compimento».

È questa la via attraverso la quale la scrittrice passa il testimone alle nuove generazioni di autori africani, cui delega il compito di immaginare un futuro meno inquinato dall’atavico impulso al saccheggio e dunque più vivibile e solidale.

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