Nadia e Denis: il Nobel contro la guerra sui corpi delle donne
Pace Il premio alla vittima yazida Murad e al ginecologo congolese Mukwege. Da anni impegnati contro la violenza sessuale e l’uso dello stupro nei conflitti: lui ha curato 50mila vittime, lei si batte per la tutela del popolo yazidi
Pace Il premio alla vittima yazida Murad e al ginecologo congolese Mukwege. Da anni impegnati contro la violenza sessuale e l’uso dello stupro nei conflitti: lui ha curato 50mila vittime, lei si batte per la tutela del popolo yazidi
Una vittima e un medico, due persone che da anni si battono contro la violenza sessuale e lo stupro come arma di guerra: sono i due vincitori del premio Nobel per la pace, Nadia Murad e Denis Mukwege.
La prima, 25 anni, la seconda più giovane premiata dal comitato norvegese dopo Malala, è dal 2015 il volto del genocidio del popolo yazidi in Iraq; il secondo, ginecologo di 63 anni, ne ha trascorsi quasi 20 a curare le ferite di almeno 50mila vittime di stupri in Congo, nell’ospedale Panzi a Bukavu.
Due luoghi distanti, Iraq e Repubblica democratica del Congo, ma universali come la battaglia che i due vincitori portano avanti e che coinvolge l’intero pianeta: «Hanno messo la loro sicurezza personale a rischio per combattere con coraggio crimini di guerra e garantire giustizia alle vittime», scrive il comitato del Nobel. «Hanno aiutato a dare enorme visibilità alla violenza sessuale in tempo di guerra, così che i responsabili possano essere giudicati per le loro azioni».
L’impegno di Mukwege è di lungo corso: da anni lavora nell’ospedale che ha fondato al confine con Burundi e Ruanda, 10 operazioni al giorno, 3.500 pazienti l’anno in una terra devastata dai conflitti armati tra milizie. È qui che «dottor Miracolo» ha aiutato 50mila donne a superare le cicatrici fisiche e psicologiche degli abusi subiti tramite ricostruzione chirurgica, supporto socio-economico e sostegno legale.
Quello di Nadia è iniziato il giorno della sua liberazione: catturata ad agosto 2014 dai miliziani dello Stato Islamico nel villaggio di Kocho, a Sinjar, nell’ovest dell’Iraq, con altre 6mila donne yazidi, è passata di mano in mano, venduta al mercato degli schiavi e sottoposta a stupri continui, pestaggi, abusi.
È riuscita a fuggire il novembre successivo, per ritrovarsi da sola: i suoi fratelli e i suoi genitori sono stati uccisi nell’attacco dall’Isis a Sinjar, otto delle oltre 5mila vittime del genocidio. Da allora gira il mondo per chiedere giustizia e protezione per il popolo yazidi: è stata accolta dall’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione, dall’Onu di cui è diventata ambasciatrice, in Vaticano.
Entrambi, Nadia e Denis, sono portatori di una denuncia più ampia: l’uso dello stupro come arma di guerra e frammentazione delle comunità. Perché, come spiega Mukwege, le violenze in Congo avvengono spesso in pubblico contro giovani donne: una precisa strategia di sfaldamento dei legami sociali che nella yazidi Sinjar si è tradotta nella violazione di donne e bambini e la loro riduzione in schiavitù con l’obiettivo di impedire la ricostruzione comunitaria.
La decisione del comitato norvegese è stata apprezzata ovunque. Al plauso delle organizzazioni per i diritti umani, da Human Rights Watch al Norwegian Refugee Council, si è aggiunto quello di numerosi governi e dell’Onu che ha salutato con entusiasmo i due vincitori nelle dichiarazioni ufficiali del segretario generale Guterres e della neo commissaria ai diritti umani Bachelet.
Si congratulano anche Kinshasa e Baghdad, nonostante le critiche mosse dai due neolaureati ai rispettivi governi. Con quello congolese Mukwege non ha avuto vita facile per aver accusato l’esercito di perpetrare la cultura della violenza sessuale.
Con quello iracheno Murad non ha avuto rapporti: dopo la liberazione dal giogo islamista nel novembre 2015 da parte di peshmerga e unità curdo-siriane legate al Pkk, Baghdad ne ha riassunto il controllo solo un anno fa.
Ma nulla è stato fatto: la maggior parte degli yazidi sfollati vive ancora nei campi nel Kurdistan iracheno e chi è tornato non ha trovato che macerie e fosse comuni. Nessuna ricostruzione né protezione internazionale, quella che Nadia chiede a gran voce da anni.
Lo fece anche due anni fa di fronte al parlamento europeo insieme a Lamiya Bashar, altra giovane yazida con cui ha condiviso identica sorte. In abiti tradizionali, con la voce ferma ma lo sguardo spento dal dolore, Nadia puntò il dito contro gli scranni che le stavano applaudendo: «Chi di noi si è liberata lo ha fatto da sola, senza alcun aiuto. Dopo due anni non è stato ancora messo in piedi un effettivo sostegno internazionale. Promettete che farete giustizia. Promettete che non accadrà più». Un grido rimasto chiuso a Strasburgo.
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