Visioni

Nada e l’esistenza oscura delle canzoni

Nada e l’esistenza oscura delle canzoniNada – foto di Claudia Pajewski

Musica È un momento difficile, tesoro», titolo inquieto ma calzante per il nuovo album di Nada in uscita oggi. Dieci pezzi prodotti da John Parish e registrati a Bristol. «L’industria musicale passa solo un genere ma mi preoccupano anche gli indipendenti perché sono entrati nel mainstream»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 18 gennaio 2019

Con Sanremo un po’ si è riconciliata: «Ci sono andata a 15 anni con l’inconsapevolezza dell’età. Non appena mi sono resa conto ho distrutto tutto e ho ricominciato da capo». Ma appena ha potuto ha fatto di tutto per modificare quell’immagine iniziale: Piero Ciampi, il teatro con Dario Fo, Brecht. Mantenendo sempre in primo piano la sua carriera come musicista, ma senza compromessi. Non sfugge a queste regole il nuovo lavoro da oggi disponibile nei negozi e negli store digitali È un momento difficile, tesoro (Woodworm Label/distr. Artist First). Splendido titolo quanto mai calzante (e inquietante) visti i tempi – con dieci canzoni che sono «spaccati di vita e stati d’animo», suoni essenziali ma perfetti e una produzione ad hoc ad opera di John Parish (P.J. Harvey, Eels, Giant Sands, Afterhours nel curriculum), con il quale aveva lavorato quindici anni fa su Tutto l’amore che mi manca.
«Ci ho messo quasi due anni a scrivere il disco e alla fine dovevo pensare a un titolo e non potevo che chiamarlo così. Una frase che ci coinvolge e ci fa sentire sulla stessa barca. Un mondo che va a scatafascio e si riflette ovviamente anche nella mia vita. Io mi ritengo una persona tutto sommato fortunata e non avrei motivo di sentirmi infelice, ma la situazione è tale che coinvolge anche me. Non è un disco divertente ma rende felici. Non è un ossimoro perché non c’è negatività in ciò che scrivo, è solo una presa di coscienza».

È tornata a lavorare con John Parish. Come l’ha coinvolto nel progetto?

Ho realizzato i provini in Italia per circa un anno, lui era in tour con P.J. Harvey ed era molto occupato. Mi ha chiesto solo di mandargli i demo, l’ho fatto e dopo poco mi ha richiamato. Era entusiasta dei pezzi e mi ha detto che se avevo pazienza lo avrebbe prodotto. Ci teneva particolarmente e gli è piaciuta l’impostazione che avevo dato alle canzoni, così mi ha detto di continuare. La registrazione vera e propria l’abbiamo fatta negli studi Playpen a Bristol, in un mese: un posto incredibile dove puoi trovare strumenti di ogni epoca. Un grande ingegnere del suono, Marco Tagliola e tanti artisti che giravano intorno. È passato anche Howe Gelb e poi Pete Judge dei Portishead che ha suonato la tromba in tre canzoni e ha fatto un lavoro incredibile. Un clima di complicità e serenità ma eravamo tutti molto concentrati, gli inglesi sono precisissimi (ride, ndr). E questa volta ho visto John al lavoro mentre per l’altro disco aveva solo prodotto perché erano coinvolti altri musicisti. Qui ha suonato tutti gli strumenti e su quanto io avevo realizzato ha solo aggiunto piccole cose, ma molto importanti per l’economia dei pezzi. È questo che mi ha convinto a lavorare ancora con lui. Io scrivo canzoni che non rispettano i canoni: melodia, strofa ritornello e negli ultimi anni ho realizzato tutto da sola perché troppo spesso i musicisti che collaboravano con me – nel tentativo di abbellirle – aggiungevano strumenti, armonie. Ma quando andavo ad ascoltarle non le riconoscevo più. John dà uno sguardo esterno, mi consiglia ed evita che commetta errori, ma mi lascia libera.

«All’ultimo sparo» è un inno antimilitarista: i padri sono morti, i figli ripetono gli stessi errori dei loro avi.

Sì, alla fine il padre simbolico di questa canzone è anche una vittima. Forse la condizione umana è questa. Triste.

Nel 1989 cadeva il muro di Berlino, ora li stiamo ricostruendo tutti…

È sconvolgente: parliamo di progresso tecnologico, facciamo scoperte incredibili e dall’altra parte impediamo ai popoli di migrare, discriminiamo per sesso, colore della pelle. Una contraddizione dettata dal potere, dal denaro e dalla volontà di sopraffazione.

«Madre» – con il finale molto simbolico in cui chiedi di rientrare nel suo grembo – sembra il pezzo più sofferto del disco.

Sì e il testo nella stesura originale era decisamente più lungo. È stato come una specie di flusso, come se avessi tirato fuori tutti i conflitti che ho avuto con lei. Poi ascoltando ho capito che non dovevo perdonare mia madre – che non ho più, ma dovevo comprenderla. Rientrare nel suo grembo significa poter rinascere avendo però un’altra consapevolezza.

Il mercato musicale italiano si è trasformato nel giro di un paio di stagioni. Alcuni azzardano: «I figli hanno ucciso i padri». Per molti un ricambio generazionale ma per altri è puro marketing.

L’industria passa solo un genere e il resto non ha visibilità, ovvio che le persone prendano quello che gli viene fatto ascoltare. E questo non mi piace, certo, perché il pubblico deve avere l’opportunità di scegliere senza essere manipolato. Ma mi colpisce anche un’altra cosa: anche gli indipendenti non esistono più perché sono entrati nel mainstream. Cercano di fare quello che fanno gli altri, magari con più creatività perché hanno radici diverse. Se scompare questo bacino – in cui io mi sono riconosciuta per scelta ma anche naturalmente visto che ho conosciuto ragazze e ragazzi che rompevano certi schemi scrivendo musiche mai banali – è veramente la fine.

Ha avuto un successo enorme da adolescente. Come si gestisce una popolarità di questo tipo a 15 anni?

Ero troppo piccola per rendermene conto, ne sono uscita ma non rinnego quei tempi e soprattutto molte di quelle canzoni: Ma che freddo fa la eseguo sempre dal vivo. Era un pezzo inquietante ma nessuno l’ha capito allora, poi ho scoperto (ride, ndr) che è stato inserito nella colonna sonora di un film horror… (Raw – Una cruda verità della regista francese Julia Ducournau, ndr).

Non cerca il facile consenso, scrive con rigore. Ma possiede uno spiccato senso melodico: l’urlo di «Dove sono i tuoi occhi» precede un liberatorio ritornello contagioso.

Quando mi dicono che scrivo cose difficili resto stupita: io penso che ci sono cose belle e cose brutte. Per farti capire meglio: un mio amico mi ha mandato un video con il suo nipotino di 4 anni che canta quella canzone…

Nel suo passato c’è il teatro, di recente anche un paio di monologhi. Non desidera misurarti nuovamente con una produzione più ampia?

Mi hanno proposto diversi ruoli ma non mi interessavano, cerco sempre qualcosa di nuovo. Quando è morto Carmelo Bene per me è finito tutto.

Nel 1973 era la sfortunata cameriera Dora Manfredi nello sceneggiato «Puccini» diretto da Sandro Bolchi.

Un’esperienza importante perché è da lì che ho iniziato a recitare. Un cast incredibile e che rifletteva un mondo sociale diverso dove si richiedeva un certo impegno. Oggi si richiede decisamente molto meno.

Ha scritto quattro libri, l’ultimo «Leonida» a breve verrà stampato anche in Spagna. Com’è passare dalla stesura di un testo all’elaborazione di un romanzo?

Non trovo differenze, mi sento libera sia scrivendo una canzone che tratteggiando i personaggi di un libro. Poi certo sono consapevole che un brano debba durare quattro minuti, ma lì viene in soccorso la musica. Scrivere un libro forse ti dà maggiori libertà, ma in realtà la mia scrittura è molto sintetica. Mi dicono che ho la capacità di condensare tante storie in poche pagine, è la mia natura non essere troppo prolissa, vado all’essenza però c’è tutto. Io sono una grande ammiratrice di Raymond Carver, ho letto tantissimo di lui. Forse ho assorbito qualcosa… (ride, ndr).

Paolo Sorrentino ha inserito in «The Young Pope» un suo vecchio pezzo: «Senza un perché».

Mi ha sorpreso che conoscesse quella canzone, io la amo ma all’epoca non ha avuto grande successo. Paolo era affascinato dala profondità di uelle parole in un pezzo pop. L’ha compresa perfettamente.

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