Nabokov in vena di follia
Classici moderni Scritto in russo dal 1930, «La gloria» venne tradotto nel 1971 in inglese dal figlio Dmitrij: è su questa versione che si è basata la Adelphi per l’epopea eroicomica del vagabondo Martin
Classici moderni Scritto in russo dal 1930, «La gloria» venne tradotto nel 1971 in inglese dal figlio Dmitrij: è su questa versione che si è basata la Adelphi per l’epopea eroicomica del vagabondo Martin
All’apparenza meno complesso e in qualche misura meno raffinato dei più celebri romanzi russi di Nabokov, La gloria – datato 1932 – è un paradossale Bildungsroman che si esaurisce e si risolve nell’esordio, con un geniale tour de force compositivo che l’autore stesso reclama nell’indispensabile premessa all’edizione inglese, inclusa nella nuova traduzione italiana di Franca Pece (Adelphi, pp. 245, euro 20,00), condotta sulla versione inglese del 1971: la struttura del testo è paragonata a un problema scacchistico nel quale la regina, per permettere lo scacco matto del cavallo in ben quattro varianti, deve restare assolutamente immobile.
Inessenziale risulta, dunque, ai fini dell’intreccio e dell’essenza del libro il peregrinare del giovane protagonista dalla Pietroburgo dell’infanzia e dalla Crimea bianca della guerra civile al Trinity College di Cambridge, alle vallate alpine e alla Berlino degli anni venti, seconda patria degli emigrati russi. Martin Edelweiss è un russo di origine svizzera e di madre anglomane, cresciuto, come l’autore, in un colto contesto plurilingue, ma non dotato, al pari di altri eroi nabokoviani, di talento creativo. A rendere unico Martin, in sé ingenuo, un po’ impacciato, fin scialbo, è la straordinaria capacità di esaltarsi per ogni piccola meraviglia del creato, di divorare con avida tenerezza la vita, di intendere la quotidianità come festa ininterrotta dei sensi. Lo anima una fantasia inesaurabile, che trapassa di continuo da rêveries a occhi aperti alle loro incarnazioni oniriche, e viceversa.
Una trama a cerchi concentrici
È proprio in una delle fantasticherie infantili che risulterà conchiusa l’intera sua esperienza di vita assieme a tutte le linee di forza del romanzo che, strutturalmente, va letto come il riflesso di un sasso nello stagno. C’è un primo marcatissmo circolo, che non va oltre il secondo capitolo: Martin si inginocchia al capezzale del suo lettino e dice le preghiere, rivolto però non all’icona, ma all’acquerello appeso subito sopra, dove si vede un sentiero serpeggiante che s’inoltra nel bosco. La sua richiesta è sempre la stessa: che la mamma non si accorga dell’identità tra quel quadro e il quadro della fiaba inglese nel quale il piccolo protagonista entra fisicamente e non interrompa in qualche modo il viaggio/sogno.
Il secondo cerchio sull’acqua è il lungo periodo di formazione finalizzato a preparare quel viaggio: sin dall’adolescenza Martin sonda il proprio coraggio in sfide eroicomiche, e falsifica la realtà perché si avvicini alla ricchezza esuberante della fantasticheria. Poi piano piano, come in un’interlinea sottesa alle molte altre vicende del romanzo, quanto ruminato nel laboratorio dell’immaginazione comincia a entrare nella realtà: un trionfo calcistico davanti a migliaia di spettatori, la sfida deliberata a uno strapiombo alpino, una manciata di luci nella notte provenzale che da un ricordo d’infanzia vengono trasferite, con un po’ d’arbitrio, al paesino di Molignac, nel quale va a lavorare da bracciante, avvicinandosi alla condizione ideale di «vagabondo, solo e perduto in un mondo meraviglioso totalmente incurante di lui». Ma l’ingresso nel bosco del quadro non è suscettibile di incarnazioni metaforiche: ormai da tempo Martin, a guerra civile conclusa, sta progettando, confidandosi con l’amata ma mai conquistata Sonja – miniatura émigré d’eroina dostoevskiana – di tornare clandestinamente in Unione Sovietica, o meglio, in una misteriosa Zoorlandia, sua proiezioe antiutopica piuttosto grossolana e terra dell’intimità dei loro cuori mai uniti. È l’atto eroico immotivato, sconsiderato – il Podvig – che dà il titolo alIa versione russa del romanzo, quasi mai finalizzato e in tutto autosufficiente: non solo e non tanto il guerriero solo contro cento, ma piuttosto il santo folle, nudo e vagabondo, della tradizione ortodossa.
Il terzo riflesso concentrico del motivo iniziale si innesca a partire dal poco convinto tentativo di Martin di sfuggire al richamo del bosco proponendo per lettera a Sonja di sposarlo e raggiungerlo nel paradiso bucolico del Sud della Francia: lo sprezzante rifiuto dà inizio a una serie vorticosa di capitoli che letteralmente precipitano verso l’epilogo, la cui prevedibile tragicità ci è già stata confermata da una prolessi: il fuoco della narrazione, prima sgusciante e reticente, è ora proiettato esclusivamente sul protagonista, e il lettore avverte con lancinante intensità come i meticolosi preparativi alla spedizione, condita di menzogne e altri test di saldezza di nervi, sia in realtà una progressiva separazione dal mondo.
L’epilogo è assolutamente laconico e perfettamente ciclico: del viaggio non è detta neppure una parola e a portare alla madre la notizia della scomparsa di Martin, cui seguiranno anni di interminabile straziante attesa, è Darwin, il miglior amico di Cambridge. All’uscita dallo chalet svizzero un cancelletto che misteriosamente si riapre e una cinciallegra pigolante (uccello molto propizio in Russia, mentre martin è in inglese il balestruccio) tracciano i confini di una metamorfica compenetrazione con la natura, sancita all’ultima riga da Martin fermo sul sentiero serpeggiante che si addentra nel bosco.
Il finale aperto così tipico del Nabokov russo (per esempio nel Dono), che sa rendere ambiguo anche l’esito più dichiarato (come in Invito a una decapitazione), è per La gloria qualcosa di più, una indicazione di continuità visionaria e mitica all’interno del testo e oltre il testo. Naturalmente per chi, come esige l’autore, non legge ma rilegge, presta attenzione ai particolari illuminanti e alle minuzie in cui è racchiusa l’emozione.
Affresco della prima emigrazione
Altrettanto utilmente il romanzo si può leggere come affresco agrodolce dell’emigrazione russa della prima ora, divisa tra angoscia dell’assenza e sogno del ritorno, cronaca in punta di penna della quotidianità goliardica e ritualizzata degli studenti di Cambridge, intrico di storie d’amore ora dissimulato, ora farsescamente estremizzato. Tagliente specchio ludico degli stereotipi sulla cultura inglese è il massiccio e imperturbabile Darwin, ex eroe di guerra e raffinato prosatore, che filtrando la realtà attraverso il più dissacrante umorismo si propone a tratti come autentico co-protagonista, ma nel finale rivela l’impotenza della flemma e del benevolo cinismo di fronte alla straripante irrazionalità del podvig.
Un nodo in sé indistricabile è quello della scelta relativa alla traduzione: se nel 1971 Nabokov ha fatto tradurre dal figlio Dmitrij il suo testo russo del 1930 e lo ha poi rivisto di persona, apportando un numero molto limitato ma non irrilevante di tagli e integrazioni, il testo inglese va considerato un nuovo originale, preferibile addirittura alla versione russa, come sembrano indicare l’autore e soprattutto i suoi eredi?
Davanti a un classico moderno di due letterature sarebbe stata certamente meno dolorosa un’opzione di accuratezza filologica, che tenesse conto del testo nella lingua non scelta per la versione, allo scopo di risolverne i luoghi più dubbi. Si è preferita invece un’aderenza esclusiva al testo inglese, che da subito ci mette di fronte a uno dei più evidenti paradossi della globalizzazione: Nabokov anglicizza tutta l’onomostica e tutti i realia russi, così, come in Italia non si fa più da cento anni, i diminutivi russi risultano resi con Pete o Nicky (come se noi traducessimo Pietruccio o Nicolino), il pittore Ajvazovskij diventa il suo aggettivo inglese Ajvazovskian, e a Berlino si va in gita non sulla Pfaueninsel, o italianamente all’Isola dei Pavoni, ma a Peacock Island. E per quanto esemplare e raffinata sia la traduzione di Dmitrij Nabokov e professionale quella di Franca Pece, una doppia traduzione resta comunque una doppia traduzione, e la semantica dell’unico originale scritto da Nabokov arriva in italiano sempre un po’ offuscata, stemperata, imprecisa.
Ciò che in russo era nitido e semplice è complicato e tecnicizzato, il corridoio diventa un andito, la poesia un poema, uno sguardo umido è adesso liquido e ciò che era insolito diviene straordinario. E al lettore italiano resta sulle labbra la sensazione che manchi qualcosa .
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